Los musicos

Fernando Botero

Un musicista moderno e rivoluzionario

Puntata numero cinquantasei

La melodia della moderna aria va cantata a tempo dell’affetto dell’animo e non a quello della mano”

Questa straordinaria e del tutto rivoluzionaria intuizione, il cui significato è che la melodia non va cantata seguendo ferree leggi legate al metronomo bensì come detta il ritmo psicologico degli affetti espressi dalle parole, è da attribuirsi a uno dei musicisti più innovativi della storia della musica : Claudio Monteverdi.

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Claudio Monteverdi è vissuto tra il XVI e il XVII secolo essendo nato a Cremona nel 1567 e morto nel 1643 a Venezia.

Monteverdi giovane

La sua attività musicale si è sviluppata in un periodo che possiamo definire come “spartiacque”, fatto di molte scoperte scientifiche ed  artistiche che hanno caratterizzato il passaggio da un epoca “antica” ad una in cui l’arte e la scienza hanno caratteristiche e qualità che le rendono molto vicine alla nostra sensibilità e al nostro modo di pensare.

E’ stato contemporaneo di giganti come Shakespeare, Vincenzo Galilei, padre di Galileo, Keplero, Carvaggio, Rubens e Francesco Bacone, una generazione di pensatori e artisti che ha esteso la mappa della conoscenza portando per mano l’umanità nel mondo moderno così come oggi lo conosciamo.

Vincenzo Galilei

Pensando a tutto questo un famosissimo direttore d’orchestra inglese, Sir John Eliot Gardiner, specializzato nell’esecuzione di musica antica , si chiedeva la ragione per la quale, analizzando questo periodo di passaggio così importante tra il Cinque e il Seicento, difficilmente la figura di Monteverdi venga accostata a quella di questi così illustri suoi contemporanei, risolvendo che ciò accade forse perché Monteverdi viene considerato “solamente” un musicista.  La cosa è strana perché, come Gardiner stesso rileva, anche Bacone e Galilei, ad esempio, erano convinti assertori dello stretto rapporto tra musica e scienza.

Teatro elisabettiano

Monteverdi ha avuto, nello sviluppo dell’arte musicale, un ruolo di primaria importanza, paragonabile, ad esempio a quello che Shakespeare ha avuto nell’evoluzione del teatro. Ha infatti contribuito, in prima persona, a cambiare completamente il modo di comporre la musica che, con lui, è passata dallo stile cosiddetto polifonico, dato dalla sovrapposizione di più linee melodiche sia cantate che suonate, a quello monofonico, o della “monodia accompagnata“, dove esiste una sola linea melodica che viene sostenuta dagli strumenti musicali.

Per dire della modernità di questo nuovo modo di comporre basti pensare che è quello alla base, ancor oggi, di moltissima musica che noi ascoltiamo o produciamo. Tutte le canzoni di musica leggera, infatti utilizzano il sistema monofonico e, in altro ambito ad esempio, anche gli spettacoli più complessi come l’Opera o il Musical, sfruttano lo stesso sistema.

Uno dei principali fautori di questa nuova “pratica” musicale è stato appunto Claudio Monteverdi la cui musica, è piena di colore, di analisi psicologica e introspettiva, di passione, sensualità e di umanità, anche in virtù del fatto che le sue composizioni utilizzano testi di autori di primaria importanza come Petrarca, Torquato Tasso, Guarini o Rinuccini.

Caudio Monteverdi

E’ stato anche uno dei primi ad affrontare un nuovo genere nato in Italia agli inizi del secolo l’Opera. E’ sua non la prima ma, senza dubbio, la più importante opera di quel periodo, il primo capolavoro, quel  famoso “Orfeo”, che ha aperto la strada della popolarità, con conseguente successo di pubblico, al nuovo genere.

Monteverdi è stato un compositore estremamente prolifico, noto soprattutto per la sua vastissima produzione madrigalistica. Otto sono, infatti, i libri di madrigali composti durante la sua vita cui se ne deve aggiungere uno, il nono, pubblicato postumo. Questo nono libro non è costituito, come oggi a volte accade con artisti da poco scomparsi, da un mix di vecchi brani magari scartati o di minore importanza, bensì è una “raccolta” che rappresenta perfettamente il livello di modernità raggiunto alla fine della sua carriera artistica.

Abbiamo già parlato di cosa sia il Madrigale in alcune puntate precedenti, soprattutto quella dedicata a Carlo Gesualdo principe di Venosa, la numero diciassette.

Era la forma musicale più importante del periodo tra il Rinascimento e il XVI secolo. Una forma nella quale gli strumenti espressivi e comunicativi della poesia si incontravano con quelli della musica, approfondendo e sviluppando il profondo legame tra le due arti.

Era un tipo di composizione essenzialmente polifonico, cioè a più voci intese, come linee melodiche, quasi esclusivamente vocale senza supporto di strumenti, anche se , a volte, venivano utilizzati degli strumenti sia per raddoppiare le voci sia per sostituirne qualcuna in caso di mancanza di un cantore.

Una delle caratteristiche fondamentali dei madrigali era la qualità dei testi, spesso composti da poeti di prim’ordine. La musica aveva il compito di sottolineare, cercando di rappresentarle musicalmente, alcune immagini e suggestioni della poesia stessa, in una sorta quasi di “pittura sonora” che cercava, attraverso i propri mezzi, di rappresentare al meglio gli affetti e le emozioni suggerite dal testo.

Gaspare Traversi-Suonatori

Questi particolari effetti vengono definiti “madrigalismi “cioè le tecniche che i musicisti adoperavano per avvicinare l’espressività della musica a quella del testo, quasi una rappresentazione musicale degli affetti come vedremo, in pratica, tra un po’ parlando di uno dei madrigali monteverdiani.

Per farvi comprendere meglio la portata del cambiamento introdotto da questo grandissimo musicista basta confrontare uno dei madrigali dei primi due libri con quelli del settimo, ottavo o nono libro. Ne risultano due generi musicali completamente diversi.

Nel secondo libro, ad esempio, una delle composizioni più significative ha come titolo “Ecco mormorar l’onde”.

E’ un brano molto bello che ci permette anche di capire, in pratica,  cosa siano questi madrigalismi.

Il testo, di Torquato Tasso, così recita:

Ecco mormorar l’onde e tremolar le fronde

A l’aura mattutina e gli arboscelli.

E sopra i verdi rami i vaghi augelli

Cantar soavemente e rider l’oriente.

Ecco già l’alba appare e si specchia nel mare

E rasserena il cielo,

e le campagne imperla il dolce gelo

e gli alti monti indora.

O bella e vaga aurora, l’aura è tua messaggera,

e tu de l’aura ch’ogni arso cor restaura”

È un testo pieno di immagini che Monteverdi “dipinge” sapientemente.

All’inizio le onde mormorano quasi statiche, rappresentate dalle voci gravi che si muovono pochissimo. Poi il “tremolar le fronde” vede le linee musicali farsi più vivaci fino ad arrivare a “l’aura mattutina” dove entrano le voci femminili, ovviamente più acute, a rappresentare il sole che sorge. I “vaghi augelli” vedono le voci rincorrersi in un canto e man mano che “l’alba appare e si specchia nel mare”, le linee melodiche si fanno sempre più acute imitando il cammino del sole che si alza nel cielo

Ecco Mormorar l’Onde

In questo caso lo scopo è quello di sottolineare il più possibile, con i movimenti delle linee melodiche dapprima la staticità di queste onde che cominciano a mormorare e successivamente lo svegliarsi della natura.

Sono tecniche che Monteverdi, come molti dei madrigalisti più bravi, padroneggia con totale bravura.

In questo caso siamo comunque in presenza di una musica che rispecchia , ancora, gli ideali e le abitudini sonore del 500. E’ un modo di comporre del tutto diverso da quello cui siamo abituati e ciò  rende, purtroppo, questi capolavori complessi da ascoltare per la maggior parte di noi.

Monteverdi, attraverso i suoi libri ha fatto tutto un percorso al termine del quale questa forma musicale è stata completamente rivoluzionata. In pratica ha traghettato la musica non solamente nel nuovo secolo ma, arrivando a comporre anche brani ad una sola voce accompagnata, ha gettato le basi di tutta la musica del periodo barocco e anche di quelli successivi stabilendo così dei canoni espressivi  che verranno ampiamente utilizzati anche nell’opera lirica, genere nel quale la melodia accompagnata troverà una delle sue massime espressioni.

L’intuizione alla base di questo nuova “pratica” era che la musica doveva corrispondere il più possibile allo stato d’animo espresso del verso e la declamazione naturale delle parole doveva essere seguita attentamente.

Un primo punto di svolta si ha nel quinto e nel sesto libro dove, per arrivare a questo risultato viene introdotto il cosiddetto “basso continuo”, cioè una serie di strumenti dal registro grave con il compito di accompagnare e sostenere le voci.

Anche l’introduzione di uno “stile concertato” con il quale voci e strumenti dialogano insieme, rappresenta una novità dirompente. Del tutto nuovo è anche il fatto che in qualche caso, gruppi di strumenti siano utilizzati per sottolineare momenti particolari indicati dal testo, cosa che non si era mai sentita prima.

Ovviamente questo asservire la musica alla poesia portò Monteverdi a trasgredire spesso alcune delle regole e delle consuetudini musicali in voga da generazioni prima di lui, quando era la musica la “signora dell’orazione”.

Queste trasgressioni,  l’utilizzo spregiudicato di alcune tecniche musicali, un uso molto libero delle dissonanze che gli servivano per sottolineare in modo efficace il significato del testo, soprattutto i termini più crudi, portarono Monteverdi al centro di una “querelle” molto accesa, sviluppatasi all’inizio del 1600, avviata dal musicista e teorico Giovanni Maria Artusi che nel suo trattato :” L’Artusi ovvero delle imperfezioni della moderna musica” si scagliò molto vivacemente contro Monteverdi accusandolo, addirittura, di fare delle “minchionate”.

Fu una polemica vivacissima come alcune di quelle che si verificano oggi tra i fans e i detrattori di un determinato artista o gruppo musicale. La differenza è che, allora, i “contendenti” erano comunque musicisti colti che sapevano argomentare le proprie convinzioni al contrario di quanto accade oggi dove si parla spesso di elementi di contorno evitando accuratamente di addentrarsi troppo nello specifico della materia musicale.

L’Artusi, chiaramente, era un reazionario musicalmente parlando, nostalgico dei bei tempi andati. Monteverdi promise di rispondere a queste accuse con un suo trattato che però non vide mai la luce. Ma nel frontespizio di uno dei suoi successivi libri di madrigali, sostenne che la sua musica non seguiva più la cosiddetta “Prima Pratica” cioè quella in cui la poesia era al servizio della musica, bensì la “Seconda Pratica” nella quale era la poesia  a determinare le atmosfere musicali.

Questi attacchi ottennero, ovviamente l’effetto contrario a quello sperato da Artusi perché Monteverdi acquisì ancora più importanza diventando il più famoso compositore dell’epoca.

Nella concezione monteverdiana l’arte doveva essere abbastanza potente da

muovere tutto l’uomo anche se questo poteva significare l’abbandono di certe convenzioni e la ricerca di nuovi mezzi espressivi e artistici”.  

Va da sé che questa è un’affermazione quasi rivoluzionaria.

Per comprendere meglio il percorso fatto da Monteverdi ascoltiamo l’inizio di un madrigale tratto dall’ottavo libro: ”Madrigali  guerrieri et amorosi”, intitolato “Il Lamento della Ninfa” su testo di Rinuccini. Praticamente è una composizione quasi a voce sola, un soprano che interpreta la ninfa, con saltuari interventi di due tenori che commentano, ogni tanto, le pene amorose della protagonista.

I versi, declamati in modo struggente raccontano:

Amor, amor, il ciel mirando il piè fermò

Amor, amor dov’è la fe che il traditor giurò?

Miserella, ah più no, no,

tanto gel soffrir non può.

Fa che ritorni il mio amor

Com’ei pur fu,

o tu m’ancidi, ch’io

non mi tormenti più”.

Questo canto si svolge su una struttura musicale che continua a ripetersi, fatta da quattro accordi discendenti. E’ una costruzione musicale e armonica che è divenuta usatissima anche nella musica leggera. Per fare un esempio c’è un famoso brano di Ray Charles il cui titolo è “Hit the Road Jack”, che usa la medesima progressione

Lamento della NInfa

 Tra il madrigale “Ecco mormorar l’onde” del secondo libro che abbiamo ascoltato in precedenza, pubblicato nel 1590, e quest’ultimo, del 1638, sono passati quasi cinquant’anni durante i quali si è verificata un’evoluzione che, per dirla con un termine oggi fin troppo abusato, veramente epocale. Con il “Lamento della Ninfa” siamo in un mondo completamente diverso, simile a quello a noi più conosciuto.

Molte sono, ovviamente le composizioni di Monteverdi degne di nota sulle quali ci si potrebbe soffermare.

Una di queste ribadisce, se ce ne fosse bisogno, la modernità del suo approccio musicale.

E’ una composizione su testo di Rinuccini, “Zefiro torna”.

Zefiro torna e di soavi accenti

l’aer fa grato e il piè discioglie a l’onde

e mormorando tra le verdi fronde,

fa danzar al bel suon  su’l prato i fiori.

In questo caso le due voci femminili si rincorrono tra loro in modo spumeggiante e arioso, salvo mutare completamente il modo di cantare , e di conseguenza l’atmosfera, quando il testo si fa più triste e malinconico.

Il ritmo è un elemento costante ed è scandito da uno strumento a pizzico che esegue una figurazione quasi di danza che si ispira molto alla “ciaccona”, una danza di probabile origine spagnola

Zefiro torna

Verso la fine del brano il testo muta atmosfera:

Sol io, per selve abbandonate e sole,

l’ardor di due begli occhi e il mio tormento,

come vuol mia ventura, hor piango, hor canto”.

Le due voci, qui per inciso interpretate dalla soprano spagnola Nuria Rial e dal controtenore Philippe Jaroussky, per sottolineare questo cambiamento procedono in modo cosiddetto “omoritmico”, cioè eseguendo la medesima figurazione ritmica e le linee melodiche sottolineano in modo veramente efficace la differenza tra “hor piango e hor canto

Zefiro torna-finale

Il gruppo strumentale che accompagna queste due voci prende il nome di “L’Arpeggiata”.

L’Arpeggiata

E’ un ensemble europeo specializzato in musiche di questo periodo che, tra l’altro, esegue con strumenti originali, o costruiti secondo i disegni dell’epoca, come la Tiorba, il Cornetto, il Violino barocco, la Chitarra barocca, l’Arciliuto, il Salterio così da costituire una gioia non solo per le orecchie ma anche per gli occhi con tutti questi strumenti bellissimi e così poco conosciuti ai cultori della musica moderna.

Come ultimo esempio a ribadire ulteriormente l’assoluta inventiva di Monteverdi voglio farvi ascoltare un ultimo brano : “Ohimè ch’io cado”. E’ praticamente una festa, un divertissement. Si basa su una figura continuamente ripetuta al basso che assomiglia moltissimo a quella di solito eseguita dai contrabbassisti jazz quando accompagnano un brano, il cosiddetto “Walking Bass”, letteralmente il basso che cammina. E’ una figura incessante tutta a note da un movimento che da lo spunto al gruppo “L’Arpeggiata” e al controtenore Jaroussky per lanciarsi in una esecuzione ricca di swing con anche qualche melodia improvvisata. Quasi un brano jazz con più di trecento anni di anticipo

Ohimè ch’io cado

Il riassunto di tutto ciò è ben rappresentato da una frase dello stesso Monteverdi che dovrebbe far riflettere tutti quelli che si occupano di musica e gli artisti più in generale:

Preferirei essere poco elogiato per il nuovo stile, piuttosto che molto per quello comune”.