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Franco Scacchi

dei Depeche Mode

Un brano tratto da un album che ha segnato un punto di svolta per la musica elettronica

Puntata numero cinquantacinque

Da un punto di vista strettamente musicale la fine degli anni ottanta è stata caratterizzata da un album che ha decretato, in pratica, il tramonto del cosiddetto synth-pop , e l’avvento di un nuovo modo di utilizzare i suoni sintetici ottenuti dagli strumenti elettronici, per creare una musica più densa , a tratti malinconica, che alcuni definiscono “Dark Wave”, perché ovviamente c’è sempre bisogno di definire le cose, che ha tra le sue caratteristiche anche quella di miscelare sonorità provenienti, appunto , dai sintetizzatori, con quelle degli strumenti più tradizionalmente usati nella musica pop-rock.

L’album in questione si intitola “Violator” ed è il settimo album di un gruppo inglese il cui nome è Depeche Mode.

I Depeche Mode calcano le scene da più di quarant’anni e, come tutti i gruppi così longevi, hanno subito alcuni rimaneggiamenti nella loro formazione.

Se voi consultate qualsiasi rivista musicale, qualsiasi fonte bene informata, e leggete i nomi dei componenti della formazione più “classica”, vi troverete di fronte a qualcosa di veramente particolare.

Infatti, nel periodo fine anni ottanta, primi novanta, durante il quale hanno composto “Waiting for the Night”, il brano di “Violator” del quale ci occuperemo in quest’articolo, i membri del gruppo erano i seguenti:

  • Dave Gahan          voce
  • Martin Gore          sintetizzatore, voce, tastiere, chitarre e cori
  • Andy Fletcher       sintetizzatore, tastiere, basso e cori
  • Alan Wilder          sintetizzatore, batteria elettronica, batteria e pianoforte

Come è evidente, rispetto a una tipica formazione pop-rock, c’è una presenza veramente massiccia di uno strumento chiamato sintetizzatore che, praticamente, viene suonato da quasi tutti i componenti del gruppo.

I sintetizzatori fanno pare della categoria degli strumenti elettronici.

Senza voler fare una disanima troppo approfondita possiamo dire che gli strumenti musicali, a seconda del modo di produrre i suoni, si suddividono in tre categorie:

  • Strumenti acustici, che sfruttano esclusivamente il materiale di cui sono composti

ed è il caso, ad esempio, di quelli usati nella musica classica, archi, fiati e percussioni varie, chitarra acustica o classica

Sintetizzatore
  • Strumenti elettrici, che derivano in parte dai corrispettivi acustici come, ad esempio, chitarra elettrica o basso elettrico, usatissimi nella musica pop rock. Funzionano come i corrispettivi acustici ma hanno dei microfoni magnetici posti sotto le corde che ne amplificano il segnale donando allo strumento maggior volume e possibilità timbriche
  • Strumenti elettronici come i sintetizzatori che non assomigliano a nessuno delle categorie precedenti e che producono suoni cosiddetti di sintesi, utilizzando oscillatori e algoritmi matematici collegati ad una tastiera simile a quella di un pianoforte. Ciò permette a questi strumenti di avere una tavolozza timbrica veramente ampia che non assomiglia a nulla di quello che le altre categorie di strumenti possono produrre.

Nella musica cosiddetta “colta” gli strumenti elettronici hanno fatto il loro ingresso, seppur in forma molto, passatemi il termine, primitiva, già agli inizi del Novecento. In quel periodo infatti nascono “L’Onde Martenot” e il “Theremin” strumento quest’ultimo di cui abbiamo già fatto la conoscenza nella puntata dedicata a “Whole Lotta Love” dei Led Zeppelin inquanto il chitarrista Jimmy Page lo utilizza alla fine del brano.

Theremin

Nella musica leggera, intesa nel senso più ampio, bisogna attendere fino alla fine degli anni 60 per vedere un utilizzo diffuso di questi strumenti.

Il primo esempio importante si ha, infatti , con la pubblicazione, nel 1968, di un album di Walter Carlos, che poi negli anni 70 diventerà Wendy Carlos, intitolato “Switched on Bach” che comprende una serie di composizioni di J.S.Bach, realizzate tutte solamente  con un sintetizzatore monofonico, il “Moog”, in grado cioè di riprodurre una sola nota per volta, il cui nome deriva da quello  del suo inventore, Robert Moog.

Wendy Carlos

Di questo album non si trovano tracce su nessuna piattaforma perché Wendy Carlos non ha mai ceduto i diritti d’autore e si può ascoltare solamente comprandolo in versione CD o anche vinile.

Questo lavoro ha destato molto scalpore e altrettanto successo, arrivando anche alle orecchie di un personaggio che abbiamo imparato a conoscere, vista la sua attenzione e preparazione per tutto ciò che riguarda la musica, il regista Stanley Kubrick, il quale chiese, nel 1971, a Walter Carlos di scrivere le musiche per quello che sarebbe diventato uno dei film più rappresentativi di quegli anni, “Arancia Meccanica”.

Questo film praticamente sdoganò l’utilizzo dei sintetizzatori perché nella colonna sonora ci sono brani di vari autori classici, Beethoven, Rossini, Purcell tutti eseguiti con questi strumenti.

A Clockwork Orange

Per capire la novità rappresentata dal suono di questi strumenti vi propongo l’inizio di un brano del film intitolato “Funeral March for Queen Mary” del compositore inglese Henry Purcell (1659-1695). Questo bano stabilisce un’atmosfera che chiunque abbia visto il film ricorda senz’altro

Funeral March for Queen Mary

Sono sonorità che non si erano mai sentite.

Il “Moog” entrò così a pieno titolo, a far parte del parco strumenti di molti gruppi del cosiddetto “Progressive Rock”, affiancato però agli altri strumenti e mai da solo.

Mini Moog

Per avere un utilizzo massiccio e quasi esclusivo di questi strumenti nella musica “leggera” bisogna arrivare al 1977 quando un gruppo tedesco i “Kraftwerk” , paladini del cosiddetto “Kraut Rock” producono un album intitolato “Trans Europe Express” nel quale viene fatto un uso massiccio di strumenti elettronici anche percussivi.

La “title track” dell’album è questa

Trans Europe Express

È un brano spigoloso, crudo, molto “tedesco” se mi passate il gioco di parole, che però segna la definitiva emancipazione e l’autonomia di questi strumenti anche nella musica pop-rock.

Si arriva quindi all’inizio degli anni 80, decennio che vede questi strumenti prendere decisamente il sopravvento su tutti gli altri.

Rutger Hauer in Blade Runner

L’ingresso in questa decade è sancito, oltre che dalla nascita di molti gruppi che si indirizzano verso la musica elettronica, tra cui i più importanti sono, probabilmente, proprio Depeche Mode, anche, guarda caso, anche , come spesso accade, da un film di fantascienza importantissimo, intitolato “Blade Runner” la cui musica, composta da Vangelis, sfrutta appieno le possibilità timbriche dei sintetizzatori come testimoniato, ad esempio, in questo brano, tratto dal film

Blade Runner

Gli anni 80 diventano così il decennio della musica elettronica. Gli strumenti tradizionali vengono, in genere, messi in disparte, sostituiti da sintetizzatori, tastiere, batterie e bassi elettronici per produrre, oltre a parti melodiche, anche sequenze ritmiche. Spessissimo i brani di quegli anni sono costruiti, esclusa la voce e qualche parte di chitarra, solo con strumenti elettronici, che spesso vengono programmati per poter eseguire delle sequenze di note anche senza l’intervento, in tempo reale, di un esecutore, sequenze che vengono poi ripetute a “loop” cioè continuamente.

Ovviamente il fatto che in questi strumenti il musicista non abbia un contatto fisico diretto con la produzione del suono, come invece accade in tutti quelli tradizionali, cioè non vengono pizzicate o strofinate corde, non si soffia in tubi di varia forma e dimensione, non si percuotono pelli di tamburi, ma si schiacciano dei tasti e poi è la macchina che produce il suono, può far correre il rischio di produrre una musica un pò fredda, a volta finta, che può sapere, scusate l’esempio, di “plastica”.

Se c’è un gruppo che non corre questo rischio pur avendo fatto dell’utilizzo dei synth il proprio marchio di fabbrica, la propria cifra stilistica, questi sono, appunto, i Depeche Mode, formatisi alla fine degli anni 70 e tutt’oggi in attività.

Depeche Mode

All’inizio la loro era una musica di facile consumo in linea, come detto , con quel genere un po’ leggero definito synth-pop. Poi sono cresciuti di molto, artisticamente parlando, e hanno iniziato a produrre brani realmente interessanti raggiungendo una fama meritata che li ha portati, alla fine degli anni ottanta ha registrare un album che in pratica ha chiuso un periodo e ha proiettato la musica nel decennio successivo grazie anche alla intuizione di affiancare ai sintetizzatori anche gli strumenti tradizionali, come la chitarra elettrica, creando così una miscela estremamente accattivante.

Per registrare questo album, “Violator”, che si rivelerà, probabilmente, il più importante della loro carriera, i Depeche Mode arrivarono esattamente nell’estate del 1989 , udite udite, a Milano. Metà di questo disco, sei tracce, è stata registrata presso i “Logic Studios” dei fratelli La Bionda, che si trovavano nello stesso palazzo dove aveva sede la casa discografica CGD di  Sugar e Caterina Caselli, e che rappresentavano, in quel periodo, quanto di meglio si potesse trovare sul mercato internazionale in fatto di studi di registrazione.

Come racconta Pino Pischetola, allora giovanissimo tecnico del suono, diventato successivamente uno dei più importanti e conosciuti a livello europeo, i Depeche Mode hanno mostrato subito una grandissima professionalità e un’attenzione quasi maniacale alla ricerca e alla produzione dei suoni. In questo album, infatti, vengono utilizzati anche strumenti particolari, chiamati campionatori, che sono in pratica delle macchine che permettono di registrare qualsiasi suono, o sequenza di suoni, assegnando poi i “file” registrati ai vari tasti di uno strumento a tastiera. Premendo questi tasti l’esecutore riproduce, in pratica, i suoni registrati. In questo modo si apre praticamente un mondo che permette di utilizzare qualsiasi suono o rumore e produrre musica.

“Violator” è un album che, in pratica, e dibenuto quasi una raccolta di “hit” visto il successo che molti brani, in esso contenuti, hanno avuto successo anche singolarmente.

Uno dei più significativi è “Personal Jesus”, una canzone interessante per vari motivi.

È basata su un riff di chitarra elettrica di chiara matrice rock blues, quindi sanguigno, sul quale si innesta una parte ritmica dalla sonorità estremamente interessante ottenuta in modo molto particolare e inventivo. E’ stata realizzata, infatti, non con degli strumenti ma registrando dei passi prodotti dai componenti del gruppo utilizzando degli anfibi molto pesanti. Questi passi sono stati eseguiti sia nello studio sia, soprattutto, nell’androne delle scale del palazzo dove si trovava lo studio, sfruttando il riverbero naturale della tromba delle scale.  I suoni così ottenuti sono stati campionati e assegnati ai vari tasti di uno strumento per poter così essere riprodotti nel brano.

L’inizio, col riff di chitarra e i passi è questo

Personal Jesus

 Altri brani molto interessanti sono “World in My Eyes”, che apre l’album, e poi quella che, probabilmente, è a tutt’oggi la loro canzone più conosciuta, “Enjoy the Silence”. Immagino, molti di voi abbiano sentito almeno una volta questo brano che ha una linea melodica molto accattivante e di immediata presa

Enjoy the Silence

Rimanendo a quanto raccontato dal tecnico che ha registrato l’album, Pino Pischetola, una delle caratteristiche principali del gruppo era quella di non utilizzare mai, per due volte, lo stesso suono. Da questo deriva la loro costante e certosina ricerca timbrica su tutti gli strumenti elettronici a disposizione.

In questo album, costellato di tanti brani diventati famosissimi c’è una piccola gemma quasi nascosta, secondo me molto intrigante, che si intitola “Waiting for the Night”.

E’ una canzone in realtà molto semplice, composta dalla canonica successione di strofe e ritornelli con solo un breve momento di raccordo, il tipico “bridge” nella seconda parte.

Il testo è crepuscolare e lascia spazio all’immaginazione:

“I’m waiting for the night to fall,

I know that it will save us all

When everything’s dark keeps us from the stark

Reality”.

“Sto aspettando che cali la notte. So che salverà tutti noi, quando tutto è buio ci tiene lontano dalla dura realtà”.

E ancora:

I’m waiting for the night to fall,

When everything is bearable

And there in the still, all that you feel

Is tranquility”

“Sto aspettando che cali la notte, quando tutto è sopportabile, e in quel silenzio tutto quello che si percepisce è tranquillità”.

È una composizione nella quale testo e musica si sposano perfettamente e, per riuscire a gustarla veramente bisogna mettersi in osservazione, reale o immaginaria, di un panorama notturno dove tutto sembra sempre uguale ma dove in realtà, una volta adattati gli occhi all’oscurità, si riescono a cogliere diverse sfumature di ombre e di piccole scie di luce.

La musica funziona nello stesso modo. Le strofe sembrano uguali tra loro ma, ogni volta che si passa da una sezione all’altra, vengono aggiunte nuove sonorità tutte molto curate. Suoni usati con gusto e parsimonia che arricchiscono lo spettro coloristico generale. Bisogna quasi essere ricercatori, fare come gli archeologi che, dopo aver trovato un oggetto lo delineano e cominciano a ripulirlo con estrema attenzione per svelarne la forma e le caratteristiche.

L’inizio, che stabilisce il clima generale del brano, è costituito da una frase ritmica di synth che si ripete in sequenza, molto delicata ed evocativa

Waiting for the Night inizio

Pur con l’utilizzo di soli suoni elettronici la sonorità risulta ugualmente avvolgente vista la cura nella realizzazione e nella creazione degli stessi.

Dopo le prime due strofe c’è un ritornello dove la tavolozza sonora si ampia perché, oltre alla sequenza che fornisce il ritmo, vengono aggiunte altre suggestioni che creano un’apertura timbrica non indifferente

Primo ritornello

E’ un brano in cui il suono diventa elemento fondante della composizione, della struttura stessa, non è un abbellimento o una cornice, è sostanza.

A questo punto troviamo il “bridge”, una piccola parte diversa sia dalla strofa che dal ritornello. E’ un momento più statico, come a volte è statica la notte, e prepara l’ingresso dell’ultimo ritornello caratterizzato da un’entrata progressiva delle varie voci, anche molto gravi, che aggiungono spessore al tutto

Bridge e ultimo ritornello

Questo brano rappresenta un’ulteriore conferma di quanto gli strumenti musicali siano ”solamente” degli strumenti al servizio della creatività di che li adopera.

Infatti i mezzi utilizzati qui, in mano a musicisti senza creatività e spessore artistico, avrebbero dato un risultato sonoro completamente diverso e, visto la loro natura elettronica, molto più freddo e senz’anima.

Nelle mani esperte e creative dei Depeche Mode, che hanno fatto della ricerca sonora una delle loro cifre stilistiche, anche i synth si rivelano perfettamente adatti a raccontare stati d’animo e sensazioni create dalla sensibilità artistica di chi li sa adoperare.

Ogni arte arriva a noi attraverso gli strumenti che le sono propri, ma ci deve essere sempre una mente creativa dietro che li sa adoperare e valorizzare nel giusto modo.

Del resto, la filosofia artistica dei Depeche Mode si può dedurre anche da un verso tratto da “Enjoy the Silence” di cui abbiamo parlato più sopra, tratto sempre da “Violator”:

All i ever wanted, all I ever needed,

Is here in my arms.

Words are very unnecessary

They can only do harm”.

Tutto quello oche ho sempre desiderato, tutto ciò di cui ho  sempre avuto bisogno, è qui nelle mie braccia.

Le parole sono veramente inutili e possono solo fare del male”.