Inner Alliance

Vasilij Kandinskij

Non ci sono risposte, solo una domanda

Quattordicesima Puntata

A circa tre quarti del suo libro “Castelli di Rabbia”, edito da Rizzoli ed uscito, come prima edizione, nel 1991, Alessandro Baricco inizia questo racconto: 


“Ed è lì che tutto inizia. Iniziano a suonare i dodici uomini di destra e i dodici uomini di sinistra, e suonando, a camminare. Passi e note, lentamente.

Quelli di sinistra incontro a quelli di destra, e viceversa. Nubi di suono incanalate nei mille passi di quella strada, l’unica strada vera di Quinnipack.

Nel silenzio, è evidente, senti l’opposto strisciare di una specie di temporale sonoro, ma molto più dolce di un temporale, da sinistra sembra una danza, lieve, dall’altra potrebbe essere una marcia o anche un corale da chiesa.

Sono ancora lontani, si spiano da lontano, così a chiudere gli occhi forse si riuscirebbe a sentirli distintamente, tutti e due, contemporaneamente, ma distinti.

La verità è che la gente non sa di preciso dove guardare, la verità, è che la gente, più radicalmente, non sa di preciso neanche che cosa deve ascoltare.

Sembra una ninna nanna quella danza. Sembra che venga avanti rotolando, fatta di niente, fatta di crema. Sembrano soldati così, in fila, sei davanti, sei dietro. Tre metri precisi tra l’uno e l’altro, fucilare il silenzio con armi fatte di legno, di ottone e di corde. Più si avvicinano più sfuma tutto negli occhi e tutta al vita ti si raccoglie nelle orecchie. 

Come farà a starci tutto in un’unica testa, nella testa di ognuno quando quelle due maree di suoni finiranno una addosso all’altra, dentro l’altra, proprio nell’esatto punto a metà della strada.

Non ci sono ormai più di cento metri tra la ninna nanna e quella marcia che sembra un corale da chiesa. Gli strumenti, uno dentro l’altro, e i passi a scivolarsi accanto, imperturbabili, esattamente su quella linea invisibile che disegna la metà esatta della strada.

C’è da sentirsi morire a vedere l’esasperante lentezza con cui quei due minuscoli eserciti di suoni marciano uno addosso all’altro, passo dopo passo- quella specie di corale da chiesa, come fosse un rito, la commozione solenne, e dentro un sapore di marcia, un’ombra di trionfo, forse- e quella specie di ninna nanna rotola, come fatta di niente, fatta di crema. 

Un milione di suoni che scappano impazziti in un’unica musica – sono li, uno dentro l’altro – non c’è inizio non c’è fine – una banda che ingoia l’altra. 

Ora si danno le spalle i due piccoli eserciti di note – non ce n’è uno che si sia voltato, anche solo per un attimo, guardavano davanti a sé sfilando uno accanto all’altro. 

E la ninna nanna riinizia a raccogliersi su sé stessa, e dall’altra parte scola la marcia che sembra un corale da chiesa. 

La dolcezza delle note che scivolano di nuovo lontano le una dalle altre, il sollievo del commiato. 

La gente è tornata pian piano ad accorgersi di sé – si cullano le orecchie nel misurato affievolirsi delle note, mentre continuano quelli a suonare imperturbabili. 

Si china la danza che sembra una ninna nanna – si ritira la marcia che sembra un corale da chiesa – gli ultimi cinque passi – l’ultima nota – fine – fermi sul bordo estremo dell’ultima casa – come fosse un baratro – prima suonavano e adesso stanno immobili con le spalle alla città, e davanti l’infinito. 

Li sta l’orribile e il meraviglioso. 

Non sarebbe poi niente se solo non si avesse davanti l’infinito.” 


A questo punto qualcuno si starà chiedendo che cavolo c’entra questo lungo inizio sul libro di Baricco con l’idea di parlare di un brano che ha un titolo molto particolare:” The Unanswered Question” cioè la “Domanda senza risposta”. 

Charles Ives

In realtà lo spunto me l’ha dato la lettura di alcuni episodi della vita del compositore di questo brano, Charles Ives. In uno di questi, infatti, Ives racconta di quando, da piccolo, venne accompagnato dal padre in città a vedere suonare la banda. In realtà, però, le bande erano due che si muovevano una verso l’altra, ognuna con il proprio brano musicale. 

Marching Band

Ives si trovò praticamente in mezzo a sentire queste due masse di suoni avvicinarsi. Suoni che non si fondevano ma si sovrapponevano tra loro fino a creare una tremenda cacofonia. 

Poi le due bande, allontanandosi, riprendevano la propria individualità man mano, continuando, ognuna, a suonare il proprio brano. 

E’ evidente la similitudine con il racconto di Baricco. Non so se Baricco conoscesse questo aneddoto o, molto più probabilmente, questo sia frutto della sua inventiva, ma, in ogni  caso, la somiglianza è abbastanza evidente. 

La cosa interessante è che questo fatto cui il piccolo Ives ha assistito ha poi influenzato molto il suo modo di approcciarsi alla musica e, in particolare, il modo col quale ha composto questo brano. 

Ma andiamo con ordine. 

Charles Ives è stato un compositore americano con una vita molto lunga (1874-1954). Il brano in questione è stato composto nel 1908 anche se è stato eseguito, per la prima volta, alcuni decenni dopo. 

La data è importante perché in quel periodo, in Europa, soprattutto ad opera di Arnold Schoenberg, nella musica occidentale cominciava a cambiare tutto e un nuovo sistema si stava affacciando all’orizzonte. Si stava passando da un sistema tonale, in voga da circa quattrocento anni a uno atonale dove non c’erano gerarchie di suoni.

Il discorso è ampio e non è questo il momento di affrontarlo, ma la cosa importante è che dall’altra parte dell’oceano, probabilmente ignaro di rispetto a quanto stava accadendo in Europa, Ives arrivò a trovare una sua strada per un modo di comporre musica abbastanza diverso da quello conosciuto fino ad allora. 

Schoenberg autoritratto

Lui adoperava spesso nelle sue composizioni temi noti o derivati da melodie popolari. Questo non era una novità in quanto da sempre i compositori erano soliti inserire nei loro brani melodie conosciute. Bach, ad esempio, le utilizzava per i suoi corali e le composizioni che venivano cantate in chiesa, anche per facilitare il compito a chi cantava.

Ma anche i compositori del Novecento come Mahler, ad esempio, utilizzavano questo modo di procedere. Sempre, però gli autori inserivano queste idee in creazioni molto più sofisticate dando a queste melodie una particolare dignità. 

Ives, invece, fa un’operazione di collage e di contrasto, lavorando per strati sovrapposti. Mischia cioè le carte come le due bande di cui sopra, con musiche che si incontrano e si scontrano. Le musiche si giustappongono, come accade, appunto per il collage. 

Questo perché è vero che, tornando all’esempio di Bach, poi i fedeli cantavano armoniosamente e il risultato era piacevole e più importante della somma delle parti che lo componevano , ma Ives notava anche come, in realtà, le cose non andassero sempre così.

Spesso, quando la gente canta, ad esempio, non è perfettamente intonata, o non va del tutto a tempo, come ognuno di voi avrà osservato a volte.

Lui però sosteneva che anche in questa imprecisione e in queste sbavature ci fosse una bellezza e un’autenticità che andava colta. 

Questo per dirvi che il brano di cui parleremo ha, come idea strutturale, la sovrapposizione di tre elementi diversi. 

È un brano veramente interessante e molto bello che ha, inoltre, il pregio, non da poco, di avvicinare anche persone poco avvezze ad una musica molto articolata, e lo fa in modo accattivante. La sua durata è intorno ai 6 minuti, a seconda dell’interpretazione. 

I tre elementi che lo costituiscono sono: 

  • Un insieme di archi 
  • Una tromba solista 
  • Un quartetto di fiati (generalmente due flauti, oboe e clarinetto anche se Ives non specifica esattamente la formazione di questo quartetto. 
The Unanswered Question partitura

Lo stesso Ives ci dà una chiave di lettura del perché di questa scelta e del ruolo che le varie componenti hanno nel brano. 

Per lui gli archi rappresentano il silenzio dei Druidi, sorta di sacerdoti delle popolazioni celtiche, che continuano imperterriti nel loro cammino incuranti di tutto quello che accade loro intorno. Non vedono e non sentono e, soprattutto, non reagiscono e ripetono un ciclo musicale sempre statico, con un movimento ridotto al minimo, come fosse un tappeto sonoro. 

Su questo tappeto si innesta la tromba solista che continua, insistentemente, a porre la domanda sull’esistenza.

È una domanda sempre uguale fatta di due brevi frasi di cinque note di cui cambia solo l’ultima. Questo ciclo di domande va avanti imperterrito, insistente. 

A questa domanda sembra rispondere il quartetto di fiati. All’inizio quasi scimmiottando la domanda stessa. Successivamente i loro interventi diventano sempre più frenetici e sconclusionati, aumentando di intensità e velocità come se i fiati stessi cercassero un qualcosa che non sanno trovare.  

Dopo la loro ultima, sconclusionata risposta la tromba ripropone, per l’ultima volta la domanda sull’esistenza.

E qui il silenzio. Nulla se non la quieta e imperturbabile processione dei druidi. 

Cerchiamo adesso di capire cosa rende questo brano così affascinante e particolare. 

L’inizio è tutto degli archi:

Inizio Archi

Ecco, gli archi vanno avanti imperturbabili.

C’è carenza di movimento. Sembra non succedere nulla. La velocità è molto contenuta e tutti gli spostamenti di note sono dilatati. 

Quello che suonano sono, in realtà, dei semplici accordi di tre suoni, raddoppiati perché gli strumenti sono molti, ma sono molto semplici e chiari. Volutamente in questa parte Ives evita qualsiasi tipo tensione e tutte le note sono estremamente consonanti e creano un’ambientazione ieratica e solenne. 

Su questo tappeto sonoro si innesta la tromba che pone la sua domanda sull’esistenza per la prima volta:

Prima domanda

La cosa particolare è che, pur essendo una domanda posta con una certa delicatezza, con un suono contenuto e lirico, la domanda stessa non c’entra nulla con quello che sta succedendo sotto nel senso che Ives ha scelto una frase di cinque note che sono completamente in contrasto con le note che stanno suonando gli archi. 

Cioè gli archi suonano, più o meno in questo ambiente:

Dissonanze

Nessuna delle note della tromba fa parte del mondo sonoro degli archi. Sono tutte note dissonanti.

La domanda è un elemento del tutto diverso. 

A questo punto arriva il primo tentativo di risposta dei fiati:

Prime risposte

La seconda risposta è già più articolata della prima, sempre fuori completamente nel senso che le note sono volutamente diverse da quelle che una risposta corretta presupporrebbe. 

La cosa interessante è che le risposte diventano via via sempre più frenetiche, sempre più veloci, sempre più incomprensibili come se questi strumenti non capissero e si affrettassero a rispondere qualcosa a questa tromba che continua imperterrita a porre la domanda.

Tra l’altro le risposte hanno anche un’indicazione di velocità diversa rispetto agli archi per cui non solo note in contrasto ma andamenti diversi, cosa molto rara nella musica. Veramente un collage. 

Vi faccio sentire le ultime risposte per capirne anche l’evoluzione:

Ultime risposte e fine

Dopo l’ultima domanda nessuna risposta, nemmeno da parte dei druidi, che, in realtà, sfumando, si allontanano. 

E’ un brano estremamente affascinante anche perché la tecnica usata, quella del collage, è abbastanza insolita per la musica.

E in un periodo di grossi mutamenti nel nostro sistema musicale questo brano pone, uno di fronte all’altro, due mondi diversi. Da una parte quello chiaro e rassicurante della tonalità che è il mondo più conosciuto dal 1600 ad oggi con le sue regole che danno stabilità e chiarezza, dall’altro un mondo di note che non c’entrano, note cosiddette atonali, che danno confusione e disordine.

È un brano inserito nel suo periodo storico, e, in un momento di transizione, Ives fornisce anche una possibile soluzione musicale e non solamente metafisica a questi dubbi, scegliendo di giustapporre i due mondi.

La tranquillità della tonalità da una parte e l’incertezza della atonalità dall’altra. 

La cosa interessante è che sia la domanda fondamentale sull’esistenza, sia quella musicale sul sistema da adoperare nel futuro, rimangono senza una risoluzione definitiva e questo è quello che Ives ha voluto lasciarci, come messaggio, cento e quattordici anni fa. 

Perché anche i suoi druidi :


Dopo gli ultimi cinque passi fermi, sul bordo estremo dell’ultima casa – come fosse un baratro – prima suonavano e adesso stanno immobili con le spalle alla città, e davanti l’infinito

Li sta l’orribile e il meraviglioso. 

Non sarebbe poi niente se solo non si avesse davanti l’infinito.” 


Ciao a tutti e ……fate i bravi.