L’ultima e più spettacolare composizione scritta da un genio di soli ventisei anni
Ventottesima puntata.
Ci sono dei brani musicali che ti arrivano lentamente, un po’ alla volta. Brani che devi andare a scoprire, con calma. Che si manifestano solamente quando tu sei pronto ad accoglierli.
Ci sono, invece, altri brani che arrivano immediatamente, come un fulmine a ciel sereno, e la prima volta che li ascolti rimani colpito, stupefatto. Brani che ti aiutano a modificare il tuo modo di pensare riguardo alla musica, e all’arte in generale.
Questo secondo caso è quello che è capitato a me, anni fa, la prima volta che ho ascoltato lo “Stabat Mater” di Giovanni Battista Draghi, meglio conosciuto come Giovanni Battista Pergolesi.
Giovanni Battista Pergolesi è uno di quegli artisti che bisognerebbe frequentare, ogni tanto, perché ti aiutano a “mantenere i piedi per terra”, e a vedere le cose sempre nella giusta prospettiva.
Ogni volta che lo ascolto mi ritornano alla mente le parole che mi rivolse un mio collega un giorno durante un periodo di lavoro al Piccolo Teatro di Milano quando , passando sotto una porta sulla quale c’era l’insegna “ Ingresso Artisti” se ne usci con “ Vedi, non è che perché uno passa qua sotto automaticamente diventa artista”.
Ecco, tutti quegli artisti, o pseudo tali, che magari “se la tirano un casino” solo perché hanno fatto qualcosa che ha avuto un certo successo, dovrebbero confrontarsi con un personaggio come il Pergolesi e riflettere sul fatto che questo eccelso musicista ha composto lo Stabat Mater che è una delle composizioni più importanti di tutta la storia della musica, all’età di ventisei anni e lo ha finito, come dice la leggenda, probabilmente lo stesso giorno nel quale è deceduto. Questo costringerebbe tutti ad un sano bagno di umiltà. Un’umiltà di cui spesso siamo carenti oggigiorno ,purtroppo.
Ma chi era Giovanni Battista Pergolesi?

La prima cosa da notare è il fatto che veniva chiamato Pergolesi perché la sua famiglia era originaria di Pergola, un paese in provincia di Pesaro-Urbino e come era usanza nel periodo, stiamo parlando dei primi del Settecento, anche lui prese il nome dal luogo di origine.
Nasce nel 1710 e muore di tisi, a ventisei anni, nel 1736. Uno dei tanti musicisti morti giovanissimi e, soprattutto, un altro, come Vivaldi e Mozart, per citarne due, ad essere seppellito in una fossa comune.
E’ importante fare qualche piccolo cenno alla sua biografia perché due sono le situazioni più importanti.
La prima è il suo trasferimento, da giovanissimo, a Napoli per studiare musica presso il Conservatorio dei “Poveri di Gesù”. La seconda riguarda le sue precarie condizioni di salute che lo hanno tormentato fin da piccolo sia a causa della poliomielite che, più avanti, della tubercolosi che sarà , poi la causa della morte.
Gli studi a Napoli sono importantissimi perché Napoli, in quel periodo, era una delle più importanti città italiane, e non solo, per quello che riguarda la musica al punto da essere definita la “Capitale mondiale” della musica. Aveva quattro Conservatori e molti teatri e questo portò Pergolesi, appena finiti gli studi, a dedicarsi alla composizione di opere teatrali, genere molto apprezzato dal pubblico napoletano. Lo fece alternando opere di successo ad altre che hanno fatto più fatica ad incontrare i gusti del pubblico soprattutto per alcune vicissitudini nella composizione delle compagnie di canto che spesso erano costituite da cantanti non proprio all’altezza, oppure già avviati sul viale del tramonto.
Il suo successo più importante fu la composizione di uno di quei cosiddetti intermezzi che venivano rappresentati tra un atto e l’altro delle opere serie e che erano caratterizzati da una trama semplice, pochi personaggi presi dalla vita reale e da una musica accessibile a tutti.

Il titolo di questo intermezzo è “La Serva Padrona” che, inserito all’inizio come intermezzo dell’opera “Il Prigionier Superbo” divenne talmente popolare da essere rappresentato poi in forma autonoma e che rappresentò l’inizio di un nuovo genere, destinato a diventare quello di maggior successo per tutto il secolo, denominato “Opera Buffa”.
Il successo fu tale che “La Serva Padrona” venne rappresentata anche all’estero, a Parigi soprattutto dove fu la causa della controversia scoppiata a alla metà del secolo, denominata “Querelle des Bouffons” il cui oggetto era se il primato del teatro musicale contemporaneo fosse del teatro lirico francese rappresentato dallo stile di musicisti come Jean Baptiste Lully o Philippe Rameau oppure dalla nuova opera buffa italiana che aveva come sostenitori personaggi quali Jean Jacques Rousseau e la stessa regina che ritenevano che la musica italiana fosse più moderna e rappresentativa della società rispetto a quella francese più schematica e un po’ antiquata.
La cosa su cui riflettere è che, in quel periodo, gli argomenti del dibattere fossero coì alti, la musica italiana contrapposta a quella francese, un modello culturale antitetico all’altro. Se confrontiamo questo con i dibattiti cui assistiamo oggi nei mezzi di comunicazione di massa possiamo dire che forse qualcosa, dal passato, avremmo ancora da imparare.
“La Serva Padrona” ci fa capire quanto eclettico fosse Pergolesi che,nonostante la sua giovane età, era capace di esprimersi al meglio sia in ambito comico leggero che in quello della musica religiosa come, ovviamente , è lo Stabat Mater.
La Serva Padrona ha due soli personaggi, Uberto (basso), il padrone e Serpina, la serva, nome non casuale che è un soprano. La trama è popolare e rappresenta la volontà di Serpina di riscattare la sua condizione di serva sposando il suo padrone, Uberto, appunto.
Vi faccio sentire un pezzetto di un’aria di Serpina il cui testo si spiega da solo :
“Stizzoso, mio stizzoso, voi fate il borioso, ma no, ma non vi può giovare; bisogna al mio divieto star cheto, cheto, e non parlare, zitto… zitto… Serpina vuol così… zitto… zitto… Serpina vuol così…
Cred’ io che m’intendete, sì, che m’intendete, sì, dacchè mi conoscete son molti e molti dì.”
Il successo di questa opera buffa presso il pubblico napoletano procurò a Pergolesi nel 1734 la commissione di uno Stabat Mater da parte dei Cavalieri della Vergine dei dolori della Confraternita di San Luigi al Palazzo per sostituire quello che era lo Stabat Mater che veniva eseguito da parecchi anni durante la Settimana Santa, scritto anni prima dal famosissimo Alessandro Scarlatti, ritenuto però non più adatto al nuovo modo di sentire e ai nuovi gusti della popolazione.
Lo Stabat Mater è una preghiera, meglio una sequenza, scritta nel XIII secolo da Jacopone da Todi nato nel 1230 oppure 36 secondo alcune fonti e morto nel 1306.
E’ stata inserita ufficialmente nella liturgia nel 1727.

Comincia con il verso:” Stabat Mater dolorosa” cioè “Stava la madre addolorata” e racconta delle sofferenze della Vergine Maria alla vista del figlio morente sulla croce.
E’ un testo che è stato musicato moltissime volte dai più svariati compositori tra cui, prima di Pergolesi, Josquin Desprez e Palestrina, contemporanei di Pergolesi quali Vivaldi o Scarlatti, successivi come Salieri o Haydn, o nell’ottocento, Rossini, Schubert e Verdi.
Anche nel Novecento si sono cimentati nello Stabat Mater compositori quali Louis Bacalov o il nostro Nicola Piovani, vincitore, tra l’altro, del premio Oscar per la colonna sonora del film “La vita è bella” di Benigni.
Dal punto di vista metrico ha una caratteristica particolare. E’ fatto di strofe di tre versi di cui i primi due sono ottonari e il terzo è un settenario sdrucciolo.
Pergolesi sfrutterà questa particolare costruzione ritmica che all’inizio è così:
“ Stabat Mater dolorosa,
Juxta crucem lacrfimosa
Dum pendebat fllius
Per enfatizzare anche da un punto di vista musicale, come vedremo, la drammaturgia del testo.
Pergolesi finisce la composizione nel 1736 e , come detto, la leggenda vuole che l’abbia finita lo stesso giorno della morte. Non si sa se questo sia vero o meno. Sta di fatto che nelle ultime pagine della partitura sono presenti degli errori, mancano delle parti e si avverte una certa fretta. Sicuramente è autentica la frase in latino che ha scritto sull’ultima pagina.” Finis laus Deo” cioè, più o meno, “Ho finito grazie a Dio”.
Questo fatto alimenterà tutta una serie di leggende, soprattutto in periodo romantico, sulla figura di Pergolesi che diventerà molto più famose, come spesso succede, da morto che da vivo. Gli furono attribuite tantissime composizioni postume e molti musicisti che scrivevano nel suo stile indicavano le loro composizioni come opera del Pergolesi per avere più successo.
Si è arrivati ad attribuirgli più di seicento composizioni ma gli studi più recenti hanno notevolmente ridotto il numero a circa una cinquantina sicuramente a lui attribuibili.
Un fatto emblematico della difficoltà di attribuzione delle opere è il caso, avvenuto all’inizio del Novecento del balletto “Pulcinella” di Stravinskij che, su suggerimento di Djaghilev, impresario dei Balletti Russi, utilizzo alcuni brani di Pergolesi. Più tardi si scopri che dei ventun pezzi utilizzati da Stravinskij undici sono da attribuirsi ad altri autori e solamente otto sono sicuramente di Pergolesi.
Per cominciare ad entrare un po’ nello specifico bisogna dire che lo Stabat Mater è una composizione per archi, basso continuo e due voci, un soprano e un contralto che si alternano in duetti e arie solistiche.

I numeri musicali composti da Pergolesi sono dodici, un po’ meno rispetto a quelli scelti da Scarlatti e la nostra analisi si concentrerà soprattutto sul primo il cui testo recita:” Stabat Mater dolorosa, Juxta crucem lascrimosa, Dum pendebat Filius”, la cui traduzione è :” Se ne stava la Madre addolorata, in lacrime vicino alla croce, da cui pendeva il Figlio”. La parte finale della strofa è quella più importante ed è quella sulla quale Pergolesi, come vedremo, utilizzerà una particolare costruzione musicale.
L’inizio è degli archi che danno subito l’idea dell’atmosfera struggente del brano
Una delle cose da notare sono gli arpeggi discendenti dei violini che sembrano rappresentare le lacrime che scendono dal viso della Madonna
A questo punto entrano le due voci, prima il contralto, poi il soprano, che intonano il verso “Stabat Mater dolorosa” e lo eseguono con note molto lunghe, dilatate, come fosse un immagine ripresa in campo lungo, che quasi si rincorrono e che partono molto vicine e pertanto dissonanti, per allontanarsi un po’ alla volta sia acusticamente che visivamente, se si osserva la partitura, quasi ad indicare il progressivo distacco tra la Madre e il Figlio.

L’inizio di queste voci è veramente spettacolare e molto toccante
Quando devono intonare il “Dum pendebat Filius” Pergolesi, per enfatizzare quasi questo primo piano sul Cristo pendente dalla croce utilizza un procedimento particolare. Le due voci, infatti, per la prima volta procedono “omoritmicamente” cioè eseguendo entrambe la stessa figura ritmica ,insieme, per dare risalto al testo che diventa ancora più importante rispetto ai precedenti anche perché viene ripetuto due volte
È uno Stabat Mater intriso di dolore e di drammaticità teatrale. Un altro escamotage teatrale viene utilizzato da Pergolesi verso la fine del brano quando mette, improvvisamente, una pausa che ha un effetto drammaturgico fortissimo
Questa teatralità è stata rimproverata a Pergolesi da alcuni rappresentanti del clero che ritenevano troppo sfacciata la rappresentazione del dolore ma, c’è da dire, che questa stessa teatralità è stata una delle cause dell’incredibile successo della composizione, successo che dura ancora oggi.
Oltre all’inizio ci sono tantissimi momenti veramente importanti sparsi nei vari numeri che costituiscono la composizione. Io vorrei soffermarmi un attimo sul numero sei che è un’aria del soprano “Vidit suum dulcem natum” che è una delle più incantevoli e commoventi dell’intero Stabat Mater.
Il momento topico si ha quando il soprano, intonando il “Vidit suum dulcem natum” emette quasi delle urla di dolore della Madre nel vedere il Figlio che sta morendo, urla strazianti che fanno venire i brividi
Poi sul “Morientem, desolatum” c’è una linea melodica discendente straziante, preceduta anche in questo caso da una pausa di sospensione che rende ancora più drammatica la frase musicale
Per finire col “Dum emisit spiritum” cioè, “ad esalare l’ultimo respiro” in cui la melodia portata avanti pesando ogni sillaba rappresenta in maniera mirabile lo spirito e il respiro che abbandona il corpo

E’ una composizione spettacolare che ha avuto molta fortuna al punto che anche il sommo J.S.Bach ne fece una parodia, come si dice in termine tecnico, cioè la ripropose, mantenendo la musica quasi uguale e sovrapponendo il testo del salmo 51 nella sua composizione il cui numero di catalogo è il BWV 1083. Praticamente lo Stabat Mater di Pergolesi con un testo in tedesco
Quello che va ulteriormente sottolineato è che questo eccelso compositore avesse solo 26 anni quando scrisse questo capolavoro dimostrando una maturità incredibile unita ad una grande sensibilità nel rappresentare il dolore di una madre che osserva la morte del figlio e, probabilmente, questa sensibilità era dovuta al fatto che anche lui, come succederà poi a Mozart nello scrivere il Lacrimosa, sapeva di essere vicino alla propria morte.
Volevo, concludere questa analisi facendovi riascoltare l’attacco delle voci nel primo brano perché, secondo me, rappresenta uno dei momenti più alti e geniali di tutta la storia della musica.