Vicino Lontano

Pietro Finelli

Una composizione struggente che travalica il confine tra generi diversi

Puntata numero ottantasei

E’ difficile parlare del processo di composizione insieme perché realmente non c’è mai stato uno schema. Il processo si evolve continuamente e non si è mai fermato così a lungo in modo che io potessi realmente capire com’era. Questo potrebbe essere in parte il segreto per il quale la nostra collaborazione è durata tutti questi anni, perché non c’è nulla di cui ci si possa stancare”.

Questa frase è stata pronunciata da uno dei musicisti, dei pianisti e dei tastieristi più importanti degli ultimi decenni, e si riferisce alla sua collaborazione con un altro musiucista, un chitarrista altrettanto importante.

Il pianista in questione è Lyle Mays e il chitarrista al quale si riferisce si chiama Pat Metheny.

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Ci sono tanti modi di dire, tanti stereotipi che circolano tra musicisti e addetti ai lavori riguardo alle differenze che intercorrono tra i musicisti con un background di studi classici e quelli di estrazione, diciamo così, meno “colta”, in particolare i jazzisti.

Circolano delle battute tremende e degli sfottò veramente pesanti. Spesso  i jazzisti affermano, infatti, che per far smettere di suonare un musicista classico basta toglierli lo spartito dal leggio, al che i “classici” rispondono, piccati, che per far smettere un jazzista, e un chitarrista in particolare, è sufficiente mettergli uno spartito “sul” leggio.

Questo per dire che è convinzione comune cha da una parte ci siano musicisti che lavorano esclusivamente su composizioni scritte e non hanno nessuna capacità di improvvisare e, per converso i jazzisti sappiano solo improvvisare e siano del tutto incapaci non solo di leggere la musica ma anche di comporre brani articolati e complessi.

Pat Metyheny e Lyle Mays

Queste convinzioni non hanno, ovviamente, alcun reale fondamento. Se è vero, infatti, che un musicista classico dedica gran parte del suo tempo ad eseguire della musica scritta, mentre un jazzista ha nella capacità di improvvisazione la sua arma vincente, è altrettanto vero che le cose non stanno sempre così.

Molti musicisti classici sanno improvvisare. Prendiamo ad esempio gli organisti o i clavicembalisti che eseguono musica barocca. Spesso il loro compito consiste nell’elaborare, sul momento, un accompagnamento avendo a disposizione a volte solo delle linee di basso o una serie di accordi cifrati da sviluppare. D’altra parte i jazzisti, quelli che suonano ad esempio nelle Big Band o in gruppi particolari tipo quello di cui parleremo oggi, sanno leggere perfettamente la musica e si confrontano spesso con composizioni molto strutturate.

Basta trovarsi di fronte a personaggi come quelli di cui parleremo in questo racconto, per rendersi conto dell’infondatezza delle affermazioni di cui sopra. Quando si parla di musica non bisognerebbe mai generalizzare o fare affermazioni troppo categoriche. Spesso la realtà è , infatti, molto più complessa di quanto possa sembrare.

Evidentemente il jazz è una musica che ha nell’improvvisazione una delle sue caratteristiche principali. Ma, soprattutto dagli anni 70 in poi, la composizione, anche in questo genere di musica, è diventata via via sempre più importante.

Charles Mingus

Anche nei decenni precedenti a questo periodo alcuni jazzisti hanno dedicato particolare importanza alla composizione nei loro brani. Charles Mingus, ad esempio, è stato, probabilmente, un compositore prima che un jazzista. Ma dopo la rivoluzione operata da Miles Davis agli inizi degli anni 70 si sono andati formando delle band che hanno fatto della commistione tra musica improvvisata e musica composta il loro marchio di fabbrica.

Mi riferisco, ad esempio , ai Weather Report di Joe Zawinul e Wayne Shorter, entrambi ex Miles Davis, oppure ai “Return to Forever” di Chick Corea, anch’egli uscito dalla fucina del trombettista dell’Illinois. Si potrebbe menzionare anche la “Mahavishnu Orchestra” del chitarrista John McLaughlin che, guarda caso, ha militato anch’egli in alcune formazioni di Miles Davis.

Di questo elenco può far parte a pieno titolo anche il “Pat Metheny Group” costituito , in primis, dai due musicisti di cui ci occuperemo più approfonditamente: Pat Metheny e Lyle Mais.

In realtà abbiamo già incontrato questi due personaggi durante i nostri racconti e, in particolare, nella puntata n. 21, quella dedicata, guarda caso, al brano di Charles Mingus “Goodbye Pork Pie Hat” nella versione che ne ha dato Joni Mitchell dal vivo durante la tournée, all’inizio degli anni 80, dalla quale è stato tratto il bellissimo disco “ Shadows and Light”.

Entrambi erano giovanissimi quando hanno partecipato a quell’incisione. Praticamente erano famosi già prima dei vent’anni.

Pat Metheny ha suonato, giovanissimo, nel gruppo di un musicista stratosferico come il vibrafonista Gary Burton. E’ curioso rilevare come, parlando di questa sua esperienza, ha detto di essere sempre stato, fin da giovanissimo, un fan di questo gruppo da lui definito “i miei Beatles” e della gioia che ha provato quando è stato chiamato a farne parte, trovandosi così fianco a fianco dei  suoi idoli.

Ha anche affermato che una delle frasi più importanti per la sua crescita artistica gli fu rivolta, appunto da Gary Burton  :

Adesso che sai fare tutto questo, che sai suonare in tutte le tonalità, che stai diventando un virtuoso della chitarra, dimentica tutto e segui il tuo istinto”.

D’altro canto anche Lyle Mays era un ragazzo con un carattere aperto e curioso. Da subito aveva rifiutato la schematizzazione della divisione tra musica classica e jazz. Si era ben presto dedicato alla ricerca di un linguaggio personale, favorito in questo anche dalla sua insegnante, (ce ne fossero di più di questo tipo), che lo ha sempre invitato a superare i confini imposti da un certo tipo di musica, incitandolo ad improvvisare e a d esprimersi come un jazzista.

Lyle Mays

Anche lui aveva un idolo da amare ed imitare. Si tratta del pianista Bill Evans, un monumento della storia del jazz, del quale abbiamo parlato nella puntata n. 13 riguardante una sua composizione “Peace Piece”.

Anche Lyle Mays sviluppa l’amore per tutto ciò che è nuovo, in musica. Il pianoforte comincia a stargli un po’ stretto. Si interessa ad altri strumenti, soprattutto ai primi sintetizzatori che stavano prendendo piede sul mercato. Questo tipo di approccio alla musica si rivelerà utilissimo al momento del suo primo incontro, nel 1974, con Pat Metheny che era sulla sua stessa lunghezza d’onda, come si evince da affermazioni di questo tipo:

Per me non ci sono altre possibilità che inventare cose nuove perché sono sempre stato circondato da persone che fanno questo”.

Pat Metheny

Nel 1977 i due formano il “Pat Metheny Group“, la cui storia andrà aventi per decenni.

Alla base della loro collaboraziuone c’è una fortissima stima reciproca:

Mi piace suonare con Lyle Mays. Non solo amo come suona,  ma riesco ad immaginare prima che accada, come possiamo suonare insieme e l’ho capito fin da subito. Lyle sa suonare la chitarra e io scrivo al piano quindi capiamo le diverse esigenze. Ma non pensiamo mai agli strumenti, pensiamo alla musica. Puoi fare riferimento a Gustav Mahler, puoi relazionarti con chiunque, ma è la stessa cosa. Il materiale è diverso ma la tessitura, il peso, le scale e la forma sono le stesse.”

Questo loro modo di pensare e di agire in musica risulta evidente fin dal loro primo album, l’omonimo “Pat Metheny Group” del 1978. La sonorità e la musica di questo disco sono del tutto diverse da quelle più comuni in quegli anni. I musicisti infatti non si limitano ad improvvisare sulla struttura armonica di un brano, il giro di accordi per intendersi, ma lavorano su strutture più complesse.

Lyle Mays chiarisce il modo di procedere nelle composizioni dell’album:

Non li chiamerei brani. Erano molto più di questo. Erano composizioni che avevano dramma, ritmo, uso interessante della forma e  un pensiero creativo”.

Costante è infatti la ricerca di nuove sonorità che vanno a dipingere un paesaggio sonoro senza precedenti.

Lavoravamo con la tecnologia. Pat inventava nuove accordature per chitarra,  e nuove impostazioni per i suoi effetti digitali. Io programmavo suoni sulle tastiere per trovare nuove sonorità. Era l’opposto di quello che si verifica quando dei musicisti si trovano  e improvvisano facendo le cosiddette jam session”.

Un brano, contenuto in quel primo album, dal quale si evince con immediatezza quale sarà la cifra stilistica di questo gruppo da quel momento in avanti, , si intitola “Phase Dance”

Phase Dance

E’ abbastanza evidente come di fronte ad un brano di questo tipo, rappresentativo del loro primo album, sia difficile parlare strettamente di jazz. Abbiamo infatti una parte ritmica abbastanza diversa dall’andamento tipico dei brani jazz, e assistiamo all’introduzione di strumenti elettrici come il basso  e le tastiere.

E’ vero che alcuni di questi strumenti erano già stati utilizzati da Miles Davis anni prima, ma non erano ancora del tutto accettati, se così si può dire, dagli appassionati e, soprattutto, dai critici, di jazz. Inoltre abbiamo una chitarra elettrica in primo piano, uno strumento considerato, tranne alcune importanti eccezioni come Charlie Christian e Wes Montgomery per citarne alcuni, non “tipicamente” jazzistico.

A questo punto bisogna puntualizzare una cosa al riguardo del Pat Metheny Group. Purtroppo, molto spesso, si tende a sottovalutare la figura e l’importanza di Lyle Mays all’interno della band. Ma il gruppo , in realtà, è stato fondato proprio da  Metheny e da Mays e attorno a questi due personaggi si sono avvicendati, negli anni, altri validi musicisti nei ruoli di bassista, batterista, percussionista e vocalista.

Lyle Mays viene, a torto, considerato come il tastierista del gruppo. In realtà il suo apporto va ben oltre questo ruolo. La sonorità della band dipende, in gran parte, anche da lui oltre che dalla chitarra. Il suo uso delle tastiere che a quell’epoca stavano cominciando ad affacciarsi sul mercato è sempre stato geniale e personale. Anche sul pianoforte il suo “tocco” e il fraseggio estremamente ricercato sono stati di importanza fondamentale per la band. Oltre a questo bisogna dire che la maggioranza delle composizioni sono firmate da entrambi i leader a testimonianza di una comunione di intenti e di una levatura artistica non comune.

Il gruppo è rimasto in attività per decenni, praticamente fino all’inizio degli anni 10. E’ stata una band di successo oggetto , ovviamente, anche di critiche da parte dei “puristi” del jazz che, di fronte ad alcune scelte musicali, e ad alcuni brani in particolare, hanno spesso “storto il naso”. Soprattutto quando il gruppo ha prodotto composizioni ritenute troppo commerciali le perplessità da parte di certa critica, sono state abbastanza evidenti.

Un esempio tipico al riguardo , si intitola “Last Train Home” ed è un brano tratto dal loro album del 1993 “Still Life Talking”. Immagino che alcuni di voi l’avranno già sentito

Last Train Home

È importante sottolineare nuovamente come il Pat Metheny Group sia una band coesa e non un insieme di solisti.

È un concetto che Pat Metheny ha chiarito molte volte:

I ragazzi del jazz spesso salgono su un  palco e iniziano a suonare  un brano standard tipo Stella by Starlight o qualcosa del genere. Una delle cose che ci ha reso unici è che noi  abbiamo sempre pensato molto alla presentazione della band”.

Un esempio dei questo è dato dal fatto che spesso l’atmosfera dei concerti veniva preparata diffondendo, prima dell’esibizione, musica registrata, come accade tipicamente nei concerti rock.

Questa coesione si riverbera, evidentemente, anche sul suono del gruppo, inconfondibile in tutti i loro album.

All’inizio degli anni 80 Metheny e Mays decidono di produrre un album da soli con l’unico supporto, in alcuni brani, di un percussionista. Il titolo di questo disco è in pratica uno scioglilingua :” As Falls Wichita, So Falls Wichita Falls”.

Questo titolo è stato ideato giocando sulle parole Wichita che è una città del Kansas, Wichita Falls,  comune del Texas, il termine Falls che significa cascate e il verbo To Fall che significa cadere.

Il titolo è stato suggerito ai due da un vecchio collaboratore di Metheny  dei tempi del gruppo di Gary Burton, il bassista Steve Swallow. Dopo aver ascoltato il disco Swallow ha affermato che era adatto ad una musica con così tante sfaccettature e significati diversi.

Steve Swallow

Lo stesso Metheny ha chiarito  l’intenzione alla base della realizzazione di questo album:

Volevamo fare un disco che dimostrasse che il pensiero improvvisato poteva essere applicato a qualcosa di più di semplici assoli sugli accordi. Che si poteva improvvisare sulla forma stessa, o sull’ orchestrazione. Perché l’improvvisazione è molto più versatile di quanto di solito si possa pensare”.

Uno dei momenti più intensi di questo album così particolare è un brano intitolato “September Fifteenth”.

E’ composto da entrambi ed è dedicato ad un loro idolo, il pianista Bill Evans, morto l’anno prima, nel 1980, proprio il 15 settembre.

Sono molte le cose importanti da rilevare.

La prima riguarda la scelta della sonorità. Abbiamo infatti da una parte il suono di una chitarra non solo acustica, ma addirittura classica, e dall’altra sonorità di sintetizzatori, un pianoforte acustico e anche un suono di pianoforte miscelato con quello di alcune tastiere, com’è tipico della ricerca sonora di Lyle Mays. Una commistione tra acustico ed elettronico realmente interessante.

Altro elemento da rimarcare è il fatto che in questo brano assistiamo ad un’unione tra parti orchestrate, momenti composti e sezioni improvvisate, realmente particolare. A volte la fusione è così ben riuscita da rendere difficile la distinzione tra le varie suggestioni sonore.

Altro elemento importante, caratteristico di tutte le opere d’arte, è che questa composizione risulta facilmente fruibile all’ascolto,  a fronte di un’estrema complessità soprattutto per quello che riguarda l’armonia, cioè il susseguirsi degli accordi, e la struttura del brano stesso.

L’inizio è costituito da una breve introduzione eseguita da quello che si definisce come un “tappeto” di sonorità di archi sintetizzati.

Subito dopo entra la melodia, composta da Lyle Mays, che viene suonata dalla chitarra classica. La melodia è struggente ed accattivante e si appoggia su una sequenza di accordi realmente complessa che però arriva al nostro orecchio in modo del tutto naturale

September 15th inizio

Finita la prima sezione i ruoli si invertono. Non sono più le tastiere che accompagnano la melodia della chitarra ma si verifica esattamente l’opposto.

La chitarra prende il ruolo di accompagnamento cambiando anche il metro ritmico. Si passa infatti ad un tempo ternario (in realtà in sei movimenti). Sono le tastiere, adesso, ad eseguire la melodia principale. E’ una melodia che ricorda le sonorità tipiche del Pat Metheny Group.

La cosa interessante è che, ad un certo punto, la melodia passa dalle tastiere al pianoforte, ma viene suonata tutta con note leggermente più gravi. Questa, che tecnicamente si chiama modulazione, viene eseguita con tanta maestria che quasi non ci si accorge del cambiamento

Sezione in 6

Finita questa sezione i due strumenti eseguono una parte totalmente composta, frutto non di improvvisazione ma di una grossa preparazione effettuata prima della seduta di registrazione.  È proprio Lyle Mays a spiegare:

Eravamo preparati  per un progetto che conteneva così tanta improvvisazione e sovraincisione fatta sul momento. In sostanza, abbiamo visto il moderno studio di registrazione multitraccia come centrale per la tecnologia  e intendevamo esplorarlo nel modo più intelligente ed efficiente possibile”.

La sezione è la seguente

Terza sezione

Successivamente, come raccontato anni dopo dallo stesso Pat Metheny, accade qualcosa di particolare. Ad un certo punto comincia il solo di pianoforte e i due non rispettano quanto stabilito in precedenza, in tal modo l’esecuzione prende una piega inaspettata, diversa da quelle che erano le intenzioni.

L’assolo di Lyle Mays però è veramente poetico e Pat Metheny si limita, diciamo così, a sottolineare solamente alcuni momenti con piccole pennellate di suono. E’ una sezione che rappresenta una vera gioia per le orecchie

Solo del piano e finale

E’ un brano meraviglioso ed è difficile rimanere insensibili di fronte a tanta bellezza, competenza e bravura.

Ciò che fa capire la grandezza di questi personaggi e il loro restare, in ogni caso, sempre coi “piedi per terra”, sempre attenti e curiosi a tutto quello che li circonda è, oltre a quanto detto, è una frase  che spesso  Pat Metheny ripete:

In confronto a Bach siamo tutti scarsi”.

Per fortuna, aggiungo io, ci sono alcuni che sono molto meno scarsi di altri.

Finale racconto