Prima Puntata
Da Judy Garland a Keith Jarrett senza rete.
Ciao a tutti.
L’idea di questa prima puntata del podcast Molliche di ascolto mi è venuta un paio di settimane fa quando mi sono imbattuto, è proprio il caso di dirlo, in una versione molto particolare di un brano che immagino voi tutti conosciate e che si intitola “Somewhere over the Rainbow” famoso per essere stato inserito nella colonna sonora del film “ Il mago di Oz “ che è del 1939 e poi, successivamente, ripreso, rivisto e rielaborato da tantissimi cantanti e musicisti in vari generi musicali.
Nel film del la canzone è cantata da una giovanissima Judy Garland.
La trama è abbastanza semplice e parla di una bambina che deve proteggere il suo cagnolino che ha morso una signora per cui chiede aiuto ma nessuno la considera e tutti le dicono di trovarsi un posto per pensare e meditare sulle cose che succedono, e lei, a un certo punto, canta questo brano il cui testo è sostanzialmente una favola.
Il testo comincia infatti così :” Da qualche parte sopra l’arcobaleno molto in alto c’è un luogo di cui ho sentito parlare una volta in una in una favola. Da qualche parte sopra l’arcobaleno i cieli sono blu e anche i sogni che ho osato fare diventano realtà.”
E via di seguito.
Ovviamente non è un testo, diciamo, profondo. Non è Shakespeare. Però è diventato un brano molto famoso sia per questo ottimismo e leggerezza che infonde sia perché ha una linea melodica molto particolare, molto lirica, il che è strano per una canzone americana che in genere punta più sull’aspetto ritmico. Inoltre è un brano diventato famoso per quel salto di nota che c’è all’inizio sulle sillabe “Some where “ che vuole appunto rappresentare questo passaggio ….oltre l’arcobaleno.
A questo punto, come si dice “bando alle ciance” e ascoltiamo questo brano nella versione cosiddetta originale ,anche se il concetto di originale in musica si presta spessissimo ad essere interpretato in vari modi. Partiamo dalla versione del film per poter poi ragionare sulla cosa che mi interessa di più.
Ecco come vi dicevo un pezzo molto leggero, aereo, molto melodico che ha una struttura semplice tipica di molti standard americani : c’è una strofa , poi una seconda strofa, quindi un inciso e poi la ripresa della terza strofa con piccole variazioni. Praticamente A A B A. Ricordo che , due strofe hanno una linea melodica uguale con testo diverso, mentre l’inciso è diverso dalla strofa sia per quello che riguarda la linea melodica che per quanto riguarda il testo.
L’inciso in questo caso comincia con…” Somewhere i wish upon a star…”.
Quella che volevo farvi sentire e della quale volevo un po’ discutere insieme a voi è la versione di Keith Jarrett, pianista classe 1945 tuttora vivente anche se non più un’attività purtroppo, che è uno dei musicisti più importanti della seconda metà del Novecento.
Molti lo definiscono un pianista jazz ma, in realtà, è molto di più. E’ un artista completo e poliedrico che ha saputo padroneggiare stili e situazioni molto diverse tra loro.
Diciamo che lui è diventato famoso, molto giovane, per essere entrato nel gruppo di un grandissimo come Miles Davis tra la fine degli anni sessanta e i primi anni settanta. Era uno di quelli che si potrebbero definire i “Fab Four” quattro pianisti che non sono i Beatles ma sono i quattro che hanno militato , in quegli anni, nei gruppi di M.Davis, lui, Chick Corea, Herbie Hancock e Joe Zawinul.
Dopodiché ha intrapreso una carriera stellare sia con varie formazioni tra cui il suo famosissimo Trio con Jack deJohnette e Gary Peacock, sia, e soprattutto, da solo.
Jarrett ha registrato il disco di piano solo più venduto della storia che è il famoso concerto di Colonia “ Koln Concert” dei primi anni 70 che è stata una delle prime performance di piano solo. Vi dico questo perché la versione di Somewhere che noi andiamo ascoltare è una versione registrata dal vivo a Tokyo nel 1984 ed è una versione per piano solo. Questo già vi fa capire alcune cose.

Innanzitutto il fatto che affrontare un brano che era originariamente cantato, solo con uno strumento è già un’impresa abbastanza ardua di per se. È vero che il pianoforte è uno strumento completo che può benissimo reggere da solo la tensione emotiva di un brano ma è altrettanto vero che affrontare un concerto per piano solo con un pezzo così famoso richiede un certo coraggio una una preparazione accuratissima e un livello artistico molto alto anche perché le possibilità espressive di due strumenti così diversi come la voce, strumento sostanzialmente monofonico, e il pianoforte strumento polifonico a corde percosse per cui con un attacco di tipo totalmente diverso, richiedono una ripensamento globale del modo in cui ci si approccia allo stesso pezzo.
Comunque adesso direi che è il caso di farvelo sentire e se magari chiudete gli occhi e vi lasciate trasportare in questo mondo… oltre l’arcobaleno è meglio, così poi ne parliamo un po’.
la cosa importante da dire è che di fronte a una performance di questo tipo, paradossalmente,….. c’è poco da dire, nel senso che qua siamo in presenza di un’operazione artistica di livello eccelso.
Ascoltare questa esecuzione è come guardare un quadro di Van Gogh, leggere “Cent’anni di solitudine “ di Gabriel Garcia Marquez, vedere Nureyev ballare, sentire la Callas cantare la Tosca, è come una statua di Rodin. E’ un’opera d’arte totale e da un punto di vista emotivo è evidente che la differenza di spessore tra queste due versioni dello stesso brano è pazzesca.
Provando comunque a cercare di districarsi all’interno di queste emozioni che sono, lo sottolineo, la parte principale nel senso che bisogna farsi trasportare ed emozionare dalla musica e non è tanto importante capire ma importante è sentire, come direbbero gli inglesi , ” to feel “e non t”o hear”, sentire con il cuore essenzialmente, facciamo qualche considerazione.
Importante è il fatto che il brano nell’esposizione del tema sia comunque molto riconoscibile pur essendo diverso dalla melodia originale. Questa è una caratteristica di tutti coloro che sanno padroneggiare l’improvvisazione e questa, va sottolineato, è una versione completamente improvvisata.
Ci sono delle libertà che un improvvisatore si può prendere che sono completamente diverse dalle quelle concesse a un interprete di musica classica. Questo non vuol dire che uno sia più libero dell’altro. Sono due concetti di libertà diversi che avremo modo di sviluppare in un secondo momento.
Ed è così facilmente comunque riconoscibil, la melodia, che il pubblico all’inizio applaude appunto perché riconosce il brano.
Allo stesso tempo è un brano completamente diverso. Innanzitutto per la scelta della dinamica. La dinamica è un aspetto fondamentale dell’espressività della musica. La dinamica riguarda il volume. E’ un brano suonato quasi tutto con una dinamica molto contenuta, molto soft tranne in alcuni punti che rendono la scelta di partenza ancora più evidente. Questo porta chiaramente a una visione molto intima e da all’ascoltatore un’impronta definita di qual ‘ è il mondo che Keith Jarrett vuole portare alla luce.
Dico portare alla luce perché in realtà tutte le note che lui adopera sono suonate con molta attenzione, con cura, con circospezione, quasi con timidezza e sembrano arrivare sempre un attimino dopo quello che dovrebbe essere. Sono tutte pensate, tutte estremamente volute, tutte estremamente sentite dentro prima che portate all’esterno.
C’è anche una concezione fluttuante della velocità . Non esiste, in questo brano, una velocità costante tipica delle canzoni che sono costruite tutte con dei metronomi molto rigidi per cui dall’ inizio alla fine la canzone si sviluppa sulla stessa velocità. In questo caso la velocità è un elemento espressivo fondamentale perché la musica è un linguaggio, e come il linguaggio parlato, ad esempio, sfrutta la velocità come modalità espressiva.
Provate a pensare a quando parlate. La velocità è una delle caratteristiche che cambiano completamente il senso di quello che dite e la dinamica ha la stessa funzione.
La musica è un linguaggio che utilizza gli stessi mezzi espressivi del linguaggio parlato, velocità , dinamica e cura del suono, che è un’altra cosa fondamentale.
Quello che ti porta in questo mondo che non è fatato ma che è intimo di Keith Jarrett è anche il suono. Il suono di questo pianoforte che è molto morbido ma allo stesso tempo definito, chiaro . Questo deriva dal tocco. Il tocco che sa essere sia morbido nell’ accompagnamento della mano sinistra , comunque molto rarefatto, sia incisivo , più che incisivo nitido e chiaro nella melodia e nelle variazioni eseguite con la mano destra. E non è il pianoforte in sé che suona così. E’ Jarrett che suona il pianoforte in questo modo. Cioè usa uno strumento musicale per portare fuori quella che è la sua poetica e il suo mondo interiore . Il focus è sull’arte, non sullo strumento o la tecnica.
Per entrare in questo mondo l’ascoltatore deve essere totalmente attento, attivo, partecipe e consapevole ed è quello che mi auguro voi riusciate a fare.
Detto ciò vi saluto e ci sentiamo alla prossima mollica d’ascolto Ciao ciao
Interessante notare come questo standard derivi dal film creato ad hoc per cavalcare il successo di un altro film dal quale è tratto a sua volta un altro famosissimo standard, ovvero Someday my prince will come. Nel 1937 la RKO distribuì quella che veniva chiamata “la follia di Walt Disney”: “Biancaneve e i sette nani”, primo lungometraggio completamente animato, ma anche primo film completamente a colori della costosissima Technicolor. Il film fu un successo e le major concorrenti, che fino ad allora ridevano del fatto di dover spendere molti soldi per produrre un film a colori, corsero ai ripari e la MGM mise in cantiere “Il mago di Oz”. Per quanto riguarda “Biancaneve”, è doveroso ricordare la soprano Lina Pagliughi che della sopracitata Someday my prince will come (Il mio amore un dì verrà) ne fa quasi una versione operistica nel doppiaggio italiano del 1938. “Il mago di Oz”, giunto in Italia solo nel 1949, invece ha un curioso modus operandi per quanto riguarda la localizzazione in italiano: venne ricreata da zero la colonna internazionale. Per quello che concerne lo score, venne del tutto riscritto da Gustavo Abel, Ezio Carabella e Edoardo Micucci, le canzoni vennero trascritte, riorchestrate e risuonate, sotto la direzione di Alberto Paoletti, e ricantate con testi in italiano a cura di Pertitas (pseudonimo di Roberto De Leonardis che cura anche l’adattamento ai dialoghi) dal Quartetto Cetra. Stessa sorte toccò allo standard protagonista di questa puntata, venne incisa “Oltre l’arcobaleno”, ma alla fine si optò per mantenere la versione originale.
Grazie per questo esauriente escursus sulle origini del “Mago di Oz”. In realtà spesso gli standard americani vengono suonati, e mi ci metto anch’io, senza curarsi troppo rispetto alla loro storia e agli spettacoli (film o musical) per i quali sono stati originariamente composti. Certo Keith Jarret faceva diventare oro qualsiasi brano suonasse. Ma la sua profondità è data anche da una conoscenze e una consapevolezza della tradizione e storia musicale del suo paese.