Philip Glass e Ravi Shankar
“East meets West”
Puntata numero quarantanove
“Penso che uno dei motivi per cui ho scritto così tanta musica nella mia vita è perché ho incontrato molte persone interessanti”.
“Era possibile diplomarsi in un importante conservatorio occidentale, nel mio caso la Juilliard School ” senza esposizione alcuna a musica al di fuori della tradizione occidentale. La musica mondiale era completamente sconosciuta a metà degli anni ’60”.
Queste son alcune dichiarazioni fatte dal compositore americano, tutt’ora vivente, Philip Glass per spiegare quelle che sono le linee guida che hanno caratterizzato la sua vita e le sue scelte artistiche.
Quello di oggi è un racconto un po’ particolare perché vi propongo di intraprendere un viaggio. Pertanto, potete mettervi comodi e gustarvi un caffè o un te, o quello che più vi piace.
Il viaggio in questione comincia a metà degli anni 60 a Parigi dove un giovane compositore americano, allora giovane essendo nato nel 1937, Philip Glass, appunto, si era recato per un corso di studi con colei che è stata probabilmente la più grande insegnante di musica del 900, Nadia Boulanger, sorella maggiore della sfortunata e bravissima Lili Boulanger della quale abbiamo parlato nella puntata numero trentasette.

Glass si trovava a Parigi per approfondire lo studio della musica “colta” europea, ma durante il suo soggiorno fece conoscenza con un personaggio particolare e molto carismatico che risponde al nome di Ravi Shankar, compositore indiano e famosissimo suonatore di sitar che, proprio in quel periodo era anch’egli a Parigi e stava lavorando alla realizzazione della colonna sonora di un film.
Philip Glass lo aiutava a trascrivere la musica su carta e rimase così affascinato dal musicista indiano al punto che lo stesso Shankar affermò in un’intervista:
” Fin dal primo momento ho visto un tale interesse da parte sua – allora era un giovane – e ha subito iniziato a farmi domande su raga e talas. Per i sette giorni mi ha fatto così tante domande al punto che, vedendo quanto fosse interessato, gli ho detto tutto quello che potevo in quel breve tempo”.
Glass rimase affascinato dalla cultura e dalla musica indiana, soprattutto dal punto di vista melodico e ritmico, comprendendo come, da quel momento, avrebbe potuto lavorare su uno dei parametri più trascurati dalla musica occidentale, il ritmo appunto.

Nella nostra musica, infatti, il ritmo è sempre stato uno degli elementi meno importanti, messo in secondo piano rispetto alla melodia e all’armonia. Sono molto poche le composizioni occidentali che si basano principalmente sull’impulso ritmico. Uno dei primi esempi lo abbiamo col la “Settima” di Beethoven della quale abbiamo ampiamente parlato in due puntate dedicate ( 34 e 35).
Bisogna arrivare fino al 1913 con “Le Sacre du Printemps” di Stravinskij (puntate otto e nove) per avere una composizione che ha nell’aspetto ritmico il motore principale. Successivamente in molti brani di Bela Bartok questa componente diventa importante ma, in generale, diciamo che la nostra musica si è sempre concentrata maggiormente su melodia e armonia, soprattutto.
La musica indiana si basa, come vedremo, su una concezione melodica abbastanza particolare e su un aspetto ritmico completamente diverso dal nostro.

Ravi Shankar, in quel periodo, cominciava ad essere famosissimo anche in Europa, soprattutto per merito dei Beatles, e di George Harrison in particolare che , come tanti musicisti pop-rock occidentali, ebbero una fascinazione molto forte per la musica, la cultura, la filosofia e la religione indiane e che fecero conoscere questa musica a tutti i “fans” sparsi per il mondo.
Ravi Shankar divenne in pratica l’ambasciatore della musica indiana e il principale responsabile della notorietà che questa acquisì presso le giovani generazioni che, fino ad allora, ne erano completamente a digiuno.
Non è possibile fare qui un’analisi di tutte le caratteristiche di questa musica ma, semplificando molto, possiamo dire che, in sostanza, si basa su due concetti principali.
Uno è quello ritmico, definito “Tala” e l’altro e quello melodico, che utilizza scale che vengono chiamate “Raga”.

I “Tala”, che hanno intrigato particolarmente Philip Glass sono, in pratica, delle frasi ritmiche, che potremmo chiamare “pattern” ognuna con un nome particolare che la definisce e che indica da quanti battiti è composta. Ovviamente questi “Tala” vengono poi mischiati tra loro ottenendo una pulsazione ritmica sempre diversa e fluttuante con gli accenti principali che si spostano continuamente.
E’ lo stesso Ravi Shankar che, in questo audio, spiega agli occidentali, con la collaborazione di un suonatore di Tabla, strumento a percussione principe della musica indiana, la corrispondenza tra le sillabe parlate e la pulsazione ritmica
Questi esempi sono, ovviamente, solo degli esempi , potremmo dire degli antipasti ma ci si può già rendere conto di quanto possa essere complesso e completamente diverso l’approccio al ritmo di questa musica rispetto al nostro che è molto più rigido nella sua suddivisione in battute spesso con accentazione regolare (il famoso quattro quarti con il quale ad esempio sono composte il 95 per cento delle canzoni che ascoltiamo).
Philip Glass capisce che, agendo sul ritmo, può contrastare quella che, secondo lui, era la “deriva” della musica colta europea, spesso troppo complessa da un punto di vista armonico e a volte eccessivamente “intellettuale” a scapito dell’aspetto emotivo al punto da renderla, spesso, un po’ elitaria.
In pratica sposò quella che allora era un’avanguardia che, sa sua volta, combatteva le avanguardie e si dedicò a comporre secondo uno stile che verrà definito “Minimalismo”.
Il Minimalismo, ne abbiamo già accennato nella puntata (numero 45) dedicata alla colonna sonora di “Interstellar” composta da Hans Zimmer, in pratica utilizza frasi melodiche molto semplici, scarne, costituite da pochi elementi. Queste frasi tendono a ripetersi in modo abbastanza ipnotico con cambiamenti appena percettibili che , un po’ alla volta, trasformano quello che era lo spunto melodico iniziale facendolo diventare qualcosa di abbastanza diverso, spesso senza che l’ascoltatore si renda esattamente conto di quando è cominciato il cambiamento.

Un’altra delle caratteristiche è il particolare lavoro sul ritmo che si ottiene utilizzando frequenti cambiamenti del metro ritmico stesso oppure piccoli sfasamenti nelle ripetizioni delle frasi, il che favorisce la percezione di un senso fluttuamento costante. Anche l’attenzione al suono e, conseguentemente, la ricerca timbrica rappresenta uno degli elementi caratteristici di questo stile.
Nel corso della storia della musica, come in quella delle altre arti, solitamente è difficile stabilire quando comincia una determinata corrente artistica.

Per il Minimalismo abbiamo, invece, una data di inizio perché, a parte qualche esperimento compiuto a cavallo tra gli anni 50 e 60 dall’americano La Monte Young, la data è il 1964 anno in cui il compositore americano Terry Riley, notate come si tratta di musicisti tutti americani, pubblica un brano intitolato “In C”, composizione basata, appunto, sulla nota Do.
Ricordo che la notazione musicale anglosassone non prevede come nomi delle note Do , Re Mi , Fa ecc ma i suoni vengono identificati dalle lettere partendo dalla A, che è il La, B che corrisponde al Si fin ad arrivare a G che è Il Sol. La cosa buffa è che “in C” si pronuncia “si” ma corrisponde alla nota Do. Questo così tanto per creare un po’ di confusione e suspence.
“In C” è il manifesto del minimalismo perché può essere suonato in tanti modi. È costituito da un certo numero di frasi la cui esecuzione è lasciata all’arbitrio dei musicisti. Anche la formazione strumentale non viene specificata pertanto le possibili esecuzioni, e le relative durate delle varie performances sono estremamente variabili.
Vi faccio sentire un pezzettino di una delle tante diverse registrazioni che potete trovare
Tutti i brani di questa corrente musicale hanno nella durata un parametro molto importante appunto perché sfruttano la ripetizione di cellule melodiche e spesso richiedono tempi lunghi. Ascoltare una di queste composizioni significa, appunto , fare un viaggio. E’ come spostarsi tra un luogo e l’altro utilizzando non l’aereo ma il treno, o l’auto. Così si può vedere il paesaggio mutare un po’ alla volta perché, come spesso si dice…..”è più importante il viaggio stesso della meta”.
Philip Glass è, senza dubbio, uno dei rappresentanti più importanti di questo stile e, dopo aver fatto conoscenza con Ravi Shankar comincia la sua carriera fino a diventare il compositore di musica “classica” o “colta” o “contemporanea” che dir si voglia, più famoso del 900.

Oltre a svariate composizioni strumentali ha lavorato molto, ad esempio, anche in ambito teatrale collaborando con il regista Bob Wilson alla creazione di alcune opere la più particolare e interessante delle quali si intitola “Einstein on the Beach”, nella quale egli dimostra come sia possibile fare musica utilizzando, a volte, un semplice conteggio di numeri “uno, due , tre , quattro” e, in alcuni pezzi di collegamento tra le varie scene, chiamati “Knee” sviluppa questa idea utilizzando un coro in modo estremamente virtuosistico e interessante come in questo che è il “Knee play 3”
Questo è un esempio calzante di come gli elementi usati siano scarni ma vengono utilizzati in modo tutt’altro che banale. Bisogna avere una mente geniale per concepire un brano di questo tipo e una preparazione e una tecnica pazzesca per riuscire ad eseguirlo.

In ogni caso io sono convinto che molti conoscano Philip Glass soprattutto come autore di colonne sonore tra le quali forse la più famosa è quella, splendida, composta per un film bellissimo del 2002 di Stephen Daldry “The Hours”. E’ una pellicola che racconta in parte, la vita della scrittrice Virginia Woolf e che vede in azione un trittico di attrici stratosferiche, Nicole Kidman, Meryl Streep e Julianne Moore.
Uno dei brani principali di questa pellicola è il seguente
E’ chiaramente una musica ipnotica che ti prende e ti porta con se dove vuole, ovviamente se si è disposti a seguirla.
Questa caratteristica la ritroviamo anche nella musica indiana.
E il viaggio di Philip Glass, che è anche il nostro, arriva fino agli inizi degli anni 90 quando, dopo venticinque anni dal loro primo incontro, Philip Glass e Ravi Shankar decidono di collaborare strettamente insieme creando un album intitolato “Passages” al quale potremmo dare come sottotitolo “East meets West” o viceversa.

Decidono infatti di unire le loro esperienze musicali in modo del tutto particolare. Praticamente ognuno fornisce all’altro dei temi e delle melodie affidandogli il compito di svilupparli e arrangiarli secondo il proprio gusto e il proprio stile.
Delle sei tracce di cui è composto il disco due sono realizzate utilizzando temi di Glass elaborati da Ravi Shankar con il contributo di musicisti indiani e occidentali, due sono di Shankar arrangiati e sviluppati da Glass con lo stesso tipo di formazione, e altri due sono frutto di un lavoro del tutto personale di ognuno dei compositori che però sfruttano la conoscenza dello stile compositivo altrui cercando di elaborarlo in modo personale.
E’ un lavoro estremamente interessante che ha l’unica pecca, ma non è colpa sua, di contenere brani che, per la loro natura, è difficile presentare in piccoli frammenti e in momenti topici come si fa di solito, perché vanno ascoltati e gustati dall’inizio alla fine per poterne cogliere l’essenza.
Il disco si apre con un brano intitolato “Offering” il cui tema è di Ravi Shankar e lo sviluppo di Philip Glass, Inizia con una sezione di violoncelli e l’utilizzo di due sassofoni, un contralto e un soprano, strumenti raramente usati nella musica classica occidentale essendo tipici, invece, del jazz
Un momento tipicamente “Glass” lo abbiamo intorno al quinto minuto dello stesso brano quando il ritmo cambia e diventa in sei movimenti conferendo alla musica un impulso veramente interessante
Il pezzo intitolato “Ragas in minor scale” cioè “Ragas su scala minore” è un tema di Philip Glass arrangiato da Ravi Shankar ed è un brano che unisce, in pratica, il meglio di due mondi musicali
Qui abbiamo anche un’orchestra classica che suona in questo punto in modo veramente poco occidentale
È veramente affascinante ascoltare questi due mondi, queste due culture, queste due strumentazioni, così diverse, che cercano di creare un “comune sentire”.
Nel brano intitolato “Channel and Winds”, tipico di Glass, abbiamo anche l’utilizzo della voce in un modo estremamente interessante
E’ veramente un peccato interrompere l’ascolto di questi brani ma non è possibile fare altrimenti anche per motivi di….. copyright.
Un altro momento veramente interessante lo abbiamo nel brano “Meeting along the Edge”, un tema di Ravi Shankar arrangiato e orchestrato da Philip Glass. Il tema è velocissimo e ha un ritmo particolare in sette movimenti
A un certo punto il ritmo vira verso un più comune, si fa per dire, quattro quarti e l’effetto, veramente interessante, lo potete apprezzare in questo punto
L’ultimo brano che volevo proporvi è quello che chiude questo album così particolare e interessante.
Il titolo è “Prashanti” ed è un tema di Shankar sviluppato da lui direttamente. Comincia con un ritmo particolare di 4+6, in pratica dieci movimenti, il che crea un andamento veramente poco usuale per noi occidentali
Verso il settimo minuto abbiamo un esempio di vocalità tipicamente indiana con una scarica di sillabe pronunciate a una velocità vertiginosa, molto musicale ma completamente estranea al nostro modo di utilizzare la voce
Verso la fine il brano si placa, le voci arrivano in primo piano, dapprima il coro e poi la voce di Ravi Shankar che, con il suo timbro particolare, canta una melodia dolce, carezzevole e struggente
A differenza delle collaborazioni che Ravi Shankar ha avuto con altri musicisti occidentali con i quali alla fine si limitava, si fa sempre per dire, a improvvisare con il proprio stile, sulla propria musica, l’incontro con Philip Glass è stato veramente un raro esempio di reciprocità.
In questo disco la musica classica occidentale ha incontrato, a metà strada, la musica classica indiana. È un viaggio cominciato alla metà degli anni 60 che ha avuto agli inizi degli anni 90 una tappa estremamente importante con la pubblicazione di questo album. Il viaggio poi è proseguito e ognuno l’ha portato avanti nel suo modo.
Ravi Shankar purtroppo è venuto a mancare nel 2012 ma la sua eredità musicale viene portata avanti con grandissima professionalità e successo dalla figlia Anoushka Shankar, essa stessa virtuosa del sitar.

Su YouTube esiste un bellissimo filmato di un concerto che ha avuto luogo nel 2017 alla Royal Albert Hall, nel quale Anoushka Shankar suona con un insieme di musicisti indiani e un’orchestra classica sotto la direzione di Karen Kamenzec eseguendo tutto l’album “Passages”, ed è veramente un filmato da gustare e molto significativo.
Il nostro viaggio attraverso differenti culture e generi musicali, per il momento è arrivato a una delle stazioni ma la meta, ammesso che esista, è ancora lontana……..
Eccellente, come sempre. Conoscevo questo disco, molto interessante, ma ascoltarlo così sembra quasi altro disco. Grazie mille.
Caspita, da quello che scrivi nei tuoi commenti si capisce che la tua conoscenza e il tuo gusto musicale sono notevoli. Sono molto contento ti sia piaciuto.
E a me di ascoltarti 🙂
È incredibile come questa musica ti porti contemporaneamente indietro nel tempo e avanti anni luce… Un viaggio veramente sorprendente. Grazie come sempre di queste preziosissime suggestioni
Esatto. E’ una musica “fuori dal tempo” e rappresenta un reale tentativo di incontro tra mondi e culture molto diversi ma, per alcuni aspetti, simili. Soprattutto non è un tentativo “finto” come molti di quelli cui assistiamo oggi in musica. Grazie a te per averlo letto e per il tuo commento.
Molto bello e interessante questo post e il tuo modo di evidenziare i vari mutamenti dello stile e i vari passaggi nei brani musicali.
Grazie mille. Quello che cerco di fare è “entrare” un pò dentro alla musica cercando di non essere troppo tecnico anche se a volte, come in questo caso in cui la musica presenta molti cambi di ritmo, non è sempre facile trovare le parole adatte. Sono contento ti sia piaciuto.
Ci sei riuscito benissimo, è tutto molto chiaro e di facile comprensione, soprattutto con gli esempi sonori, anche per chi, come me, non è esperto nel campo 🙂
Sono molto contento di questo. Era lo scopo principale. Grazie ancora.
Ho ascoltato e riascoltato questa tua mollica ieri sera, dopo il lavoro, perché ieri per me è stata una giornata lunga e sapevo che qui avrei trovato qualche cosa che mi avrebbe riportato alla Realtà. E non mi sono sbagliata. Due culture che si incontrano in un turbinio di suoni e atmosfere che sai raccontare come un vero canta storie, di quelli che ipnotizzano e portano lontano. Roba rarissima, oggi. Oggi il mondo è pieno di imbonitori e falsi profeti; quelli che sanno raccontare la Verità, sono rimasti in pochi. Ti ho già ringraziato, lo so, ma vorrei farlo di nuovo. E adesso mi vado ad ascoltare i pezzi che hai “citato” come esempi e continuo il viaggio fra due mondi, che sono lo stesso Mondo.
Esatto, i due mondi ,in realtà, sono due facce diverse dello stesso mondo. Basta fare un piccolo sforzo e si entra in una dimensione che fa parte di noi ma che, sovente, non riusciamo a mettere a fuoco. Conoscendoti un po’, grazie a quello che scrivi, immaginavo che saresti stata interessata. Grazie a te per il supporto.
grazie per l’opportunità che offri in questo spazio di apertura e approfondimento.
Grazie a te per aver apprezzato il racconto e per averne colto il senso.