In Transito

Gianfranco Garofalo

Una ballad dei Radiohead

e considerazioni varie

a la carte

Puntata numero cinquanta

“Parlare di musica significa assumersi delle responsabilità. Allora si preferisce soffermarsi sugli elementi di contorno. Si passa per menti elette e si fa più bella figura”.

Così scriveva nella sua autobiografia “Cronache della mia vita” nell’Anno Domini 1935 Igor Stravinskij.

Siamo così arrivati alla puntata numero cinquanta. Non ci avrei mai pensato quando, quasi un anno fa, ho cominciato questa inedita esperienza , questo viaggio così particolare. Non mi sono posto dei limiti di tempo ma devo dire che mi sembra un bel traguardo e, contemporaneamente, uno stimolo a proseguire visto anche il riscontro, abbastanza positivo, che questi racconti hanno avuto.

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Nel tentativo di fare sempre meglio ho cercato, ovviamente, di documentarmi, spulciando libri e navigando, come si suol dire, spesso per il web alla ricerca di notizie, aneddoti, curiosità.

Spesso, durante questa navigazione, mi è tornata alla mete la frase di Stravinskij che ho inserito all’inizio perché, tra le molte cose scoperte, ce ne sono alcune, soprattutto riguardo ai modi di dire e di fare, che, per usare un eufemismo, mi hanno e continuano ad irritarmi profondamente.

Due sono in particolare le cose che mi colpiscono sempre negativamente.

La prima riguarda il pericoloso radicalizzarsi, in musica ma anche in altri aspetti del comune vivere, della divisione dei ragazzi, e gli adulti non sono da meno, in opposte fazioni perennemente in conflitto tra loro.

Da una parte coloro i quali plaudono sempre in modo acritico, accettando abbastanza supinamente qualsiasi proposta musicale o qualunque “artista” venga loro proposto dai mass media. Per questa fazione tutto è bello, spesso eccezionale. Tra questi molti formano le cosiddette “Fan base”, praticamente gruppi di adoratori delle varie star di turno.

Sul fronte opposto stanno coloro per i quali la musica, quella vera, che loro spesso identificano solo con il rock, non sarà mai come quella di una volta, che gruppi come i Led Zeppelin, Pink Floyd, Deep Purple sono gli unici depositari del “verbo” e che tutto quanto, oggi, musicalmente fa schifo. Al massimo sono disposti ad accettare le “nuove tendenze” fino agli inizi degli anni 90 con i Nirvana di Kurt Cobain dopo i quali, per loro, il nulla.

Il “bello” è che queste due “correnti di pensiero” passano gran parte del loro tempo a insultarsi reciprocamente in modo feroce sui social media, con l’aggravante di non entrare mai nel merito degli aspetti puramente musicali, nel tentativo di difendere le proprie posizioni, ma si limitano, sempre, a denigrarsi sugli elementi di contorno che, come diceva Stravinskij, ormai novanta anni fa, permettono di fare più bella figura.

I “contorni” che vanno per la maggiore sono la critica e l’analisi, ad esempio, del modo di vestire o di atteggiarsi di un determinato artista, o pseudo tale.

Jimi Hendrix brucia la chitarra al festival di Monterey 1967

Altro argomento di furiosi dibattiti è il fatto che, recentemente, un gruppo musicale italiano, ha ripreso  il vezzo di spaccare gli strumenti durante una performance, cosa che facevano già musicisti come Jimi Hendrix o gli Who alla fine degli anni 60 in tutt’altro contesto socio- politico.

Si criticano atteggiamenti fuori dagli schemi, come se il rock fosse sempre stata una musica da educande, ignorando che David Bowie, ad esempio si presentava truccato e travestito quando interpretava Ziggy Stardust agli inizi degli anni 70, ad esempio, oppure che Jim Morrison, sul palco, ne combinava di tutti i colori.  La gente si scanna su questo ma nessuno si preoccupa di dire, o pensare, se quegli strumenti distrutti fossero stati suonati bene o se i vestiti e i costumi abbiano un senso o meno rispetto a quanto viene prodotto. Perché, e questo è un altro punto sconvolgente, oggi si può accettare una trasgressione ma fino a un certo punto, l’importante è che questa trasgressione non collida con quello che ormai è diventato, in linea con altre cose della nostra società, nel nostro caso non il politically ma il “musically correct”.

Pete Townshend degli Who

E qui arriviamo alla seconda cosa che mi irrita profondamente perché, sempre per rispettare il “musically correct” quando qualcuno osa parlare in modo non del tutto positivo di un artista, i sostenitori di quest’ultimo se ne escono, quasi sempre, con la frase fatidica, “ Se non ti piace non parlarne”.

“Cosa?”

Questo vorrebbe dire che si può esprimere la propria opinione solo sulle cose che piacciono altrimenti bisogna stare zitti?

Sono gli stessi che, due secoli ad esempio, avrebbero impedito al padre di Clara Schumann, il musicista Friedrich Wieck, di profferire dopo aver ascoltato la “Settima” di Beethoven, la famosa frase “E’ una musica da ubriaconi”. È anche diventato famoso per questa, diciamo, improvvida uscita che, peraltro, ha argomentato musicalmente, in modo opinabile, ma l’ha argomentata.

Questo “musically correct” è veramente insopportabile e, secondo me, parte della colpa di questo modo di pensare, risiede anche nella totale mancanza, oggigiorno, di una sana critica musicale, per quello che riguarda la musica leggera, rock e affini, una critica come quella attiva e preparata, in questo caso si può ben dire, che c’era qualche decennio fa.

Oggi anche le firme musicali, un tempo prestigiose, di giornali importanti, si sono totalmente appiattite in una totale accondiscendenza verso gli artisti che vanno per la maggiore, dei quali declamano ogni lavoro e ogni concerto, come se fosse bello e interessante quanto il precedente, negando il fatto che cantanti e artisti sulla breccia da trenta, quaranta anni, possano avere, giustamente, un calo nella creatività o che la loro produzione possa aver avuto alti e bassi. Per questi “soloni” della critica le carriere di questi artisti sono sempre, costantemente, ad un livello altissimo, il che, ovviamente, non è possibile.

Una critica fatta come si deve dovrebbe rilevare le cose positive ma anche segnalare, con correttezza ovviamente, quelle ritenute meno valide in modo da funzionare come stimolo a fare meglio sia per gli artisti in questione sia per i loro fans, che imparerebbero così a prestare più attenzione alle cose della musica piuttosto che ai vari elementi di contorno.

Perdonate questo “pippotto” che serve anche a ribadire come, per me, sia assurdo ridurre sempre la musica a una gara il cui scopo è stupire o arrivare primi. Primi di cosa, poi, non si sa.

Tutti, o quasi, i personaggi che vanno per la maggiore oggi hanno, ovviamente, aspetti positivi e negativi. Ignorare o idolatrare questi aspetti non è un bene, e non fa bene a nessuno.

Un altro nome che mi viene subito in mente soprattutto quando leggo i commenti dei fans di quelli che si potrebbero definire i “dinosauri” del rock e intendiamoci, va benissimo amare i Pink Floyd o artisti simili, meno bene è pensare che la musica sia morta con loro e che non ci siano più cose interessanti come se l fosse l’unica arte a non produrre più niente di importante da anni, l’altro nome, dicevo, è ovviamente meno importante di Stravinskij ma comunque ha un certo peso nel panorama musicale rock pop attuale, ed è quello dei Radiohead.

Radiohead

I Radiohead sono un gruppo, formatosi in Gran Bretagna agli inizi degli anni 90 e, rispetto a molte altre band hanno una caratteristica che li contraddistingue: ogni volta che, nella loro carriera, sono arrivati a un momento di successo con la pubblicazione di un determinato album, e a loro è accaduto parecchie volte, hanno immediatamente cambiato rotta cercando nuove soluzioni e nuove esperienze musicali. In questo modo hanno   guadagnato nuovi sostenitori ma ne hanno perso altri, producendo dischi che spesso hanno spiazzato pubblico e critica, costringendo tutti a seguirli sul terreno, a volte impervio, dell’innovazione costante.

 Il loro primo album di grande successo è stato “Ok Computer” del 1997 cui sono seguiti lavori estremamente più di sperimentazione come “Kid A” e “Amnesiac” entrambi dei primi anni 2000.

Nel 2007 con l’uscita di “In Rainbows” hanno operato una scelta veramente originale decidendo di rinunciare alla casa discografica per caricare loro stessi l’album sulle varie piattaforme permettendo a tutti di fare il download chiedendo di pagare la cifra che ognuno riteneva fosse adeguata al valore del disco.

Un’operazione pionieristica per i tempi che non ha dato i risultati sperati perché molti, ovviamente hanno scaricato l’album gratuitamente non capendo che quell’opera era frutto di un grande lavoro e di un notevole ingegno cui, ovviamente, deve essere riconosciuto anche un valore economico.

In pratica il falso mito della musica gratis per tutti, una convinzione che ha creato tantissimi danni, ha colpito anche in questo caso.

Il gruppo è un quintetto ed è composto da tutti polistrumentisti:

Thom Yorke  ,  vocalist e autore dei  testi

Jonny Greenwood ,  tastiere e chitarra , famoso anche per la composizione di alcune tra le colonne sonore più interessanti degli ultimi tempi tra le quali quelle per i film “Il Potere del Cane” di Jane Campion e “Spencer”  su Lady Diana uscito quest’anno,

Ed O’Brien, principalmente chitarra

Colin Greenwood, fratello maggiore di Jonny, principalmente basso elettrico

Philip Selway, percussioni varie.

Il loro ultimo album risale ormai al 2016 ma due di loro, praticamente gli elementi più importanti, Thom Yorke e Jonny Greenwood hanno realizzato un progetto che potremmo definire uno “spin off” dei Radiohead, un gruppo che si chiama “The Smile” facendo uscire quest’anno uno dei più interessanti dischi degli ultimi decenni intitolato “A Light for Attracting Attention” che contiene, a pare mio, forse una delle più belle canzoni prodotte nel 2022, “Free in the Knowledge”.

L’oggetto di questa puntata è una delle canzoni più famose da loro prodotte inserita nell’album “Ok Computer” del 1997 e si intitola “No Surprises”.

Essendo una canzone molto conosciuta è stata oggetto di parecchi rifacimenti da parte di tanti musicisti. Io mi sono un po’ divertito a cercare, anche un per festeggiare la cinquantesima puntata, alcune delle numerose cover che ne sono state fatte. Vorrei offrirvene, dopo aver parlato del brano, ovviamente, due in particolare che penso possano stuzzicare la vostra attenzione e la vostra fantasia così come è successo a me.

Jonny Greenwood

No Surprises” è una ballad, in pratica, un brano lento estremamente interessante. Avrebbe potuto suscitare, secondo me, l’interesse di Stanley Kubrick, uno che aveva una concezione particolare della musica e del suo utilizzo come abbiamo rilevato nella puntata n.48 dedicata a “Barry Lyndon” perché è una canzone che al primo ascolto sembra una cosa ma, in realtà ad un’analisi un po’ più approfondita si rivela tutt’altro. Volendo veramente azzardare mi da anche l’idea di qualcosa di brechtiano non come stile, ovviamente, ma perché racconta delle cose in modo particolare, lasciandone intravedere altre.

Il brano già all’inizio “copre” le sue carte in questo modo

No Surprises inizio

E’ un inizio che sembra quello di una “lullaby” una favola ma presenta alcuni elementi che “stonano” con questa idea. Il primo arpeggio, infatti, da un’idea di tranquillità ma, subito dopo, ne abbiamo un secondo che suona un po’ “storto” perché, contrariamente al primo, è in minore. Solo col pianoforte, suona così

Pianoforte arpeggio iniziale

Questo effetto viene accentuato anche dal fatto che uno degli strumenti usati è un “Glockenpiel”, costituito da barre di metallo che vengono percosse con dei battenti e che ha un suono molto, passatemi la battuta, metallico. Può ricordare, vagamente, un carillon, che, come ben sapete, per la sua sonorità un po’ asettica e robotica, è spesso utilizzato, ad esempio, per creare momenti di tensione nella musica da film.

Glockenspiel

E, in effetti, tutto torna se si legge il testo che , perdonatemi ancora, è molto tosto.

Sulla melodia cantata che sembra quasi una ninna nanna, il testo racconta:

A heart that’s full up like a landfill”       

Un cuore che è riempito come una discarica

“A job that slowly kills you”                      

Un lavoro che ti uccide lentamente

“Bruises that won’t heal “                             

  Lividi che non guariranno

“You look so tired, unhappy”                    

Sembri così stanco, infelice

“Bring down the government “                 

Fai cadere il governo (potere)

“They don’t, they don’t speak for us”       

Loro non parlano nel nostro interesse

“I’ll take a quiet life”                                     

Farò una vita tranquilla

“A handshake of carbon monoxide”          

Stringerò la mano al monossido di carbonio  (qualcosa che uccide lentamente) 

                                                                

“No alarms and no surprises”                       

Ne allarmi ne sorprese

Silent. Silent”                                                    

Silenzioso, silenzioso

E finisce con

“Such a pretty house”                                     

Una casa così carina

“And such a pretty garden”                           

 E un giardino così carino

“No alarms and no surprises”                       

Ne allarmi ne sorprese

L’unica Speranza, proprio alla fine è il coro che, sotto il ritornello, abbastanza in secondo piano, canta per tre volte

“Get me outta here”                                         

Fatemi uscire di qui

Questa è la strofa col ritornello

Prime strofe e ritornello

Il tutto è reso ancora più particolare dal suono della voce e dal modo di cantare così trascinato che rendono ancora più stralunato l’effetto generale.

Il brano dura circa 3 minuti e 40 secondi, abbastanza corto quindi. A un certo punto c’è un inciso strumentale suonato dalla chitarra che nelle esecuzioni dal vivo viene fatto invece col glockenspiel.

Dopo questo c’è il finale con il coro che per tre volte, appunto canta in sottofondo “Get me outta here

Finale

Questo scontro/incontro tra musica e testo produce un effetto di straniamento veramente interessantissimo e direi geniale come accade in molti lavori di questo gruppo.

Come detto questo brano è stato oggetto di molti rifacimenti, molte cover. Ricordo, per inciso, che in una cover, ne abbiamo parlato ampiamente molto tempo fa nelle puntate sei e sette, si può modificare tutto, ritmo, arrangiamento, armonia tranne la linea melodica che è l’elemento fondamentale della canzone.

Molte delle cover che ho sentito in queste settimane cadono nel tranello, si fa per dire, di riproporre pari pari l’arpeggio iniziale maggiore/minore e, così facendo, finiscono per ricadere completamente nell’atmosfera del brano originale risultando così, poco interessanti.

Ma alcune delle reinterpretazioni sanno trovare una strada personale che le rende degne di nota.

Una di queste è quella realizzata da una cantautrice americana, giovanissima essendo nata nel 1999, Lizzy McAlpine che offre una versione molto scarna. Utilizza, praticamente, solo una chitarra acustica puntando tutto sul suono della voce. Il suo è un timbro vocale, molto intimo ma intenso allo stesso tempo, delicato, ma estremamente presente.

Lizzy McAlpine

Da un punto di vista musicale una delle sue scelte è quella di modificare, in parte, l’inizio appunto per cercare una strada espressiva più lineare e logica

Lizzy McAlpine inizio

Questa vocalità così personale rende anche l’inciso estremamente particolare e coinvolgente

Lizzy McAlpine inciso

Il suono della voce, in questo caso, sposa benissimo l’andamento estremamente morbido ma , al contempo, interessante da un punto di vista ritmico, della chitarra acustica che regge, praticamente da sola, tutto l’impianto strumentale del brano.

Lizzy McAlpine, in questo caso, ha lavorato più sull’aspetto melodico e timbrico piuttosto che su quello tendente a far risaltare le caratteristiche del testo. Ed è una scelta del tutto condivisibile e apprezzabile.

La seconda versione è del tutto particolare perché apparentemente sembra non c’entrare nulla con la versione dei Radiohead nel senso che l’ambientazione sonora è totalmente diversa. In realtà finisce per far risaltare ancora di più le particolarità del testo che parla di una situazione senza speranza per quello che riguarda il miglioramento delle proprie condizioni di vita, che porta ad un’accettazione passiva delle stesse. Il brano infatti, viene eseguito da un gruppo chiamato Post Modern Jukebox che ospita, in questo caso la cantante e clarinettista Chloe Feoranzo nata nel 1992. Sembra essere suonato dall’orchestrina del Titanic non prima, ma addirittura dopo lo scontro con l’iceberg. L’atmosfera è completamente straniante come può essere quella di qualcuno che va incontro al proprio destino, e che destino, in modo rilassato quasi senza rendersene conto in un modo che, secondo me, avrebbe fatto felice Stanley Kubrick

Post Modern Jukebox feat. Chloe Feoranzo

Tra l’altro, guardando il filmato su YouTube l’effetto è ancora maggiore perché questa ragazza che canta e suona benissimo si muove, in realtà completamente fuori sincrono rispetto al ritmo e il risultato, non so se voluto o casuale, è ancora più particolare.

Entrambe le versioni sviscerano il brano da due punti di vista totalmente diversi ma entrambi interessanti, molto interessanti.

Per chiudere volevo citare quanto detto dall’autore de testo, Thom Yorke che ha detto, riferendosi a “No Surprises”:

Thom Yorke

“Se lo suoni bene è veramente buio. Ma è come recitare. Solo che le parole sono così oscure. Quando lo suoniamo dobbiamo suonarlo così, lentamente.  Perché suona bene solo se è davvero fragile”.