Anche allo specchio non ci si vede

David Klippel Arden

Puntata numero sessantadue

Il filosofo e poeta tedesco Hegel scrisse nelle sue “Lezioni di Estetica”:

“La musica deve elevare l’anima al di sopra di se stessa, deve farla vibrare al di sopra del suo soggetto e creare una regione dove, libera da ogni affanno, possa rifugiarsi senza ostacoli nel puro sentimento di se stessa”.

Questa affermazione mi è tornata alla mente qualche giorno fa, mentre stavo leggendo dei commenti sulle celebrazioni per quello che sarebbe stato l’ottantesimo compleanno di Lucio Battisti, se fosse ancora tra noi.

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Al solito in questa occasione si è scatenata, soprattutto sui social, l’ennesima diatriba tra coloro che prediligono il cosiddetto “primo “ Battisti, quello della collaborazione con Mogol, e quelli che, invece, amano il “secondo” Battisti e la sua collaborazione con Pasquale Panella.

Mogol e Lucio Battisti

Queste due fazioni risultano, al solito purtroppo, non comunicanti tra loro in quanto ognuna di esse si arroga il diritto di essere l’unica depositaria della verità. Come se potesse esistere un “vero” Lucio Battisti da contrapporre a uno “falso”.

La figura di Lucio Battisti è sempre, del resto, stata abbastanza controversa. Amatissimo da gran parte del pubblico ma spesso contestato, anche pesantemente, da certa critica che gli rinfacciava , ad esempio, una tecnica vocale non perfettamente in linea con quelli che erano i modelli che andavano per la maggiore in quel periodo.

Inoltre, lui sfuggiva a qualsiasi definizione. Non era un cantautore come, ad esempio, De André, De Gregori o Guccini, in quanto non scriveva i testi delle sue canzoni. Non era nemmeno un interprete come Mina o Celentano, per restare nell’ambito del suo periodo di maggior successo, gli anni 70. Lucio Battisti si i suoi pezzi, ma lo faceva con una voce del tutto particolare. Una vocalità non esente da alcune pecche nell’emissione, che risultava però adattissima, secondo me, ad esprimere sia i contenuti dei testi che, soprattutto , lo spirito delle sue canzoni.

Era un musicista, un compositore che scriveva canzoni, e che canzoni. Canzoni che avevano una personalità completamente diversa rispetto a quelle in voga negli anni in cui lui era in attività.

Un’altra sua peculiarità riguardava il modo di comporre. I suoi brani erano, e sono tutt’ora, estremamente interessanti dal punto di vista del respiro drammaturgico. Nelle sue canzoni, infatti, utilizzava delle tecniche inusuali per gli standard della musica leggera. Spesso lavorava in modo approfondito sia sulla velocità dei brani, variandola con “rallentando” o “accelerando” per sottolinearne al meglio alcuni momenti, utilizzando stilemi tipici, ad esempio, della musica cosiddetta “classica”, ma prestava anche molta attenzione alla dinamica, utilizzando i volumi in modo espressivo con improvvisi cambi tra il “forte” e il “piano” per rendere la sua musica il più interessante possibile da un punto di vista drammaturgico.

Basta prendere composizioni come “I Giardini di Marzo”, “Io vorrei, non vorrei , ma se vuoi”, “Emozioni”, “Il Mio Canto Libero”, “Eppur mi son scordato di te” e ce ne sono tante altre, per rendersi conto di quanto particolari fossero, da questo punto di vista, i suoi lavori.

La sua musica creava storie. E queste storie venivano poi messe , diciamo, “in scena” ed enfatizzate, nel suo cosiddetto primo periodo, dai testi di Mogol . Il sodalizio Mogol-Battisti era quello che si può definire una vera e propria “macchina da guerra”. Tutto quello che toccavano diventava oro e ,negli oltre dieci anni della loro collaborazione dalla fine degli anni 60 agli inizi degli 80, innumerevoli sono stati i successi che hanno garantito loro, per lungo periodo, il primato di vendite di dischi in Italia.

Mogol

Anche in questo periodo di grandi successi però l’irrequietezza compositiva di Lucio Battisti, ha più volte fatto capolino. A lui, infatti, stava stretto il tipico schema della canzone con il rigido alternarsi di strofe e ritornelli e, al massimo qualche “bridge” di raccordo. Spesso cercava dio destrutturare questo schema alcune volte anche in modo eclatante.

 Nel 1974, ad esempio, dopo un viaggio in Sud America, pubblica un album “Anima Latina” in cui attua il tentativo di dare un’importanza del tutto nuova alla parte musicale nelle canzoni. I brani di questo disco, infatti, sono più lunghi del solito. I testi, al contrario sono molto scarni e quantitativamente poco rilevanti. Anche il trattamento della voce è particolare. Viene tenuta, in fase di missaggio, volutamente, come si dice, “dentro la musica” al punto da rendere poco intelligibili i testi. Questo fatto, che causò anche un po’ di attriti con lo stesso Mogol, fu, per dichiarazioni dello stesso Battisti, voluto per costringere il pubblico a una maggiore attenzione rispetto a quella che di solito veniva riservata alle canzoni di musica leggera.

Anima Latina

Il sodalizio Mogol- Battisti, si chiude proprio agli inizi degli anni 80 quando Lucio Battisti si rende conto di non voler più perpetuare quello che, per Mogol, era la solita formula, cioè creare la canzone di successo.

Il suo intento era quello di cercare altre strade che lo gratificassero maggiormente da un punto di vista musicale.

Chiaramente la prima cosa che fece per cominciare ad attuare questo rinnovamento fu rinunciare al partner di una vita. La separazione artistica fu quindi inevitabile.

Conseguenza di questo fu una frattura evidente tra Lucio Battisti, che ricordo era sempre stato amatissimo fino ad allora, e il suo pubblico. In pratica i suoi ammiratori non accettarono questo cambiamento, vissuto come un tradimento da parte dell’artista.

Questo atteggiamento sia da parte del pubblico che della critica che, sottolineo, ha sempre avuto un atteggiamento molto “aggressivo” nei confronti di Lucio Battisti, nonostante oggi tutti cerchino di affermare il contrario, è, in fondo, molto comprensibile. La motivazione sta nel presupposto molto diffuso che la musica debba sempre, e a volte solamente, gratificare anche in modo superficiale, l’ascoltatore. Quindi ogni innovazione e ogni cambiamento tendenti a minare questo “status quo” creano un atteggiamento immediato di rifiuto.

Questo è sempre successo nella storia della musica. Ogni qualvolta un compositore ha cercato di fare delle cose diverse, di dare nuovi orizzonti alla musica, si è sempre assistito ad una levata di scudi sia da parte del pubblico che della critica in difesa della normale routine e della consuetudine.

Questo perché, che lo si voglia o no, l’esperienza dell’ascolto  si basa su una dialettica di previsione e sorpresa, di attesa e risposta. In pratica succede che il compositore da al pubblico delle, passatemi il temine,” molliche”, delle sonorità , degli accenni di materiale, in base ai quali il pubblico elabora delle previsioni aspettandosi delle conferme.

Nelle canzoni questo è abbastanza evidente. Dopo la prima strofa ci si aspetta una seconda strofa con la stessa melodia e una diversità nel testo, poi un ritornello che sia orecchiabile e così via. Se queste aspettative vengono confermate scatta la sensazione di piacere.

Poi però c’è bisogno di qualcosa che immetta qualche elemento di sorpresa. E la sorpresa viene vista come una temporanea deviazione dal percorso che ormai si conosce.

In questa alternanza tra elementi di conferma, che nelle canzoni sono la maggioranza, ed alcuni elementi di sorpresa, sta il meccanismo che determina il piacere che continua durante l’ascolto e che stabilisce, di conseguenza, il successo di un brano.

Le componenti di conferma e sorpresa e la loro, diciamo, percentuale all’interno di un determinato brano determinano anche il formarsi di varie tipologie di ascoltatori , e di conseguenza di fan. Alcuni prediligono brani più tradizionali, altri quelli che contengono qualche spunto maggiormente innovativo.

Resta il fatto che se un brano musicale, o una canzone, è fatta tutta di conferme, in genere annoia, ma se le sorprese sono troppe si corre il rischio di destabilizzare l’ascoltatore e di creare rifiuto perché il pubblico non trova punti di riferimento.

Questo in realtà, non vale solo per la musica ma funziona per quasi tutto quello che facciamo nella nostra vita.

Tutto ciò che ci dà piacere porta con se una dose di conferme e di sorprese e il mix di questi due elementi varia a seconda della personalità, dell’esperienza, della curiosità e della voglia di evolversi di ognuno di noi.

Per fare un esempio pratico in musica di questo dualismo proviamo ad analizzare una canzone del 1976 del primo Battisti, intitolata “Ancora Tu” inserita nell’album “La batteria il contrabbasso eccetera”

Ancora tu

In questa prima parte la caratteristica ritmica è ben chiara e prevedibile vista l’introduzione.  

Il brano potrebbe andare avanti così, magari con piccole variazioni e non ci sarebbe niente di strano, solo risulterebbe forse un po’ troppo prevedibile.

L’intuizione di Lucio Battisti è quella di inserire un momento completamente diverso che crea, diciamo così, scompiglio nel normale svolgersi della canzone.

Di conseguenza inserisce una parte poco melodica, abbastanza difficile sia da cantare che complessa da ascoltare il cui scopo è non solo quello di creare un diversivo ma, soprattutto, quello di far apprezzare nuovamente il “ritorno a casa” del brano quando lo stesso riprende l’andamento iniziale. Questa ripresa acquista nuovo interesse proprio in virtù di questo diversivo introdotto

Ancora tu bridge

Il meccanismo di piacere nell’ascolto, in questo modo, si rinnova continuamente.

Dalla fine degli anni 70, invece, nella musica di Lucio Battisti questo meccanismo di conferma-sorpresa subirà una drastica inversione nel senso che le sorprese, nella sua musica, saranno molte di più delle conferme.

Questo sarà definito il periodo dei “dischi bianchi” cioè quelli registrati con i testi composti da Pasquale Panella.

Pasquale Panella

Lucio Battisti decide di ritirarsi definitivamente dalla scena musicale.

Niente più interviste, niente apparizioni televisive e nemmeno promozione dei suoi album.

“Non parlerò mai più perché un artista deve comunicare con il pubblico solo per mezzo del suo lavoro”.

Soprattutto decide, lui che nasce come chitarrista, di dedicarsi alla musica elettronica che in quel periodo, come abbiamo visto nella puntata n.55 dedicata a “Waiting for the Night” dei Depeche Mode, era il genere di musica emergente in tutto il mondo occidentale.

Intuisce anche che, con le apparecchiature elettroniche, può, in pratica, registrare un album praticamente a casa sua, con i musicisti a lui graditi che, da quel momento, saranno quasi tutti stranieri.

Abbandona quasi del tutto l’uso degli strumenti tradizionali dando vita, come detto, al periodo dei “dischi bianchi” così denominato dal colore di tutte le copertine degli album da li in poi prodotti.

Il primo prodotto di questo periodo è l’album oggetto di questa puntata, l’album del 1986 “Don Giovanni”  la cui copertina, in realtà , non è bianca ma leggermente beige e questo quasi a voler significare un momento di transizione ancora non del tutto compiuto tra i due periodi.

Gli album di questo periodo vedono la collaborazione di Lucio Battisti con il poeta ermetico Pasquale Panella che diventerà l’autore di tutti i testi.

I due si erano conosciuti agli inizi degli anni 80 durante la produzione di un album di un artista della scuderia, diciamo così, di Battisti, Adriano Pappalardo che in alcune canzone aveva inserito, appunto, alcuni  testi di Panella.

Questa collaborazione durerà fino all’ultimo album registrato da Lucio Battisti  che si intitola “Hegel” pubblicato nel 1994 quattro anni prima della sua morte.

“Don Giovanni” ebbe un discreto successo di vendite ma assolutamente non paragonabile a quello dei suoi album precedenti.

E’ un album estremamente interessante soprattutto in virtù della maturazione , dal punto di vista compositivo, di Lucio Battisti.

Dico questo perché quando si parla di questo periodo in genere critica e pubblico si spaccano e si dividono nel giudizio soffermandosi soprattutto sull’aspetto riguardante i testi che vengono giudicati, e a volte lo sono, incomprensibili. Del resto se Panella viene considerati un poeta ermetico un motivo ci sarà, ovviamente.

Quasi nessuno, invece, parla della cosa più importante che riguarda Lucio Battisti, cioè la sua musica.

Questa musica è molto diversa da quella del Battisti precedente. E’ una musica piena di sorprese e con poche conferme e questo ha destabilizzato, come detto, pubblico e critica.

Ma, a ben guardare, o meglio ascoltare, in “Don Giovanni”, ad esempio, possiamo assistere a una fusione quasi miracolosa tra le radici melodiche del Battisti primo periodo e le innovazioni del secondo Battisti.

E’ un disco che suona come il “vero” Battisti rimesso praticamente a nuovo anche attraverso l’uso di una strumentazione del tutto diversa da quella sua tradizionale. L’atmosfera generale, le sonorità, segnano una forte discontinuità rispetto al passato ma abbiamo ancora il gusto melodico e gli slanci compositivi tipici di Lucio Battisti. Questi slanci vengono però immersi in un tessuto musicale radicalmente diverso.

Il risultato è un album innovativo  ed interessante che richiede un approccio più attento all’ascoltatore e che contiene alcune delle composizioni più belle dell’intera produzione di Lucio Battisti.

Il primo brano è “Le Cose che Pensano” . Questo sembra essere il vero manifesto del nuovo percorso intrapreso da Battisti. E’ in pratica una ballata con un’introduzione affidata ad un pianoforte digitale, che ha una sonorità filtrata attraverso l’uso di molti effetti

Le Cose che Pensano

 Come avete potuto sentire la linea melodica è tipica di Battisti. La prima sorpresa, diciamo così, arriva quando viene riproposta la seconda strofa che è in una tonalità diversa rispetto alla prima (sulla frase “cadere la guardai”).

Altra caratteristica è che la struttura è un po’ fluida nel senso che le varie parti non hanno una durata simile ma, a volte ci sono battute in più o la metrica non è sempre quattro quarti, il che crea un effetto leggermente ondivago e destabilizzante.

A un certo punto troviamo una sorta di pedale dove tutto apparentemente si ferma. Alla fine di questa sezione c’è la ripresa della melodia come all’inizio, esattamente nella stessa tonalità ma, dopo tutto questo percorso, questo “ritorno a casa” suona strano, un po’ forzato, come se entrassimo dalla finestra invece che dalla porta principale

Le Cose che Pensano finale

Questo pezzo è opera di un grande compositore di canzoni perché ti destabilizza ma fino a un certo punto. Contiene molte sorprese ma le conferme arrivano nei momenti giusti per tenere vivo l’interesse.

Il secondo brano “Fatti un Pianto” è , probabilmente, il più battistiano, in senso classico, di tutti quelli dell’album.

Comincia con un’introduzione di sax che sembra presagire un’atmosfera jazz ma vira immediatamente verso il funk con una ritmica che fornirà la caratteristica principale di tutto il brano

Fatti un Pianto

Anche in questo brano il colpo di genio è il “break” del solo di sax durante il quale cambia praticamente tutto, anche perché inizia su un accordo minore, e l’effetto è micidiale

Solo di Sax

In questo album c’è anche spazio per momenti più leggeri e divertenti.

Uno di questi lo troviamo nel brano “Equivoci Amici” il cui testo si basa su un elenco di u nomi storpiati di conoscenti del duo Battisti-Panella le cui caratteristiche personali vengono poi specificate in modo ironico e surreale

“Uno andò saldato
Uno vive all’estro
Uno s’è spaesato
Uno ha messo plancia
E fa il trans-aitante
Uno fa le more
Uno sta invecchiando
Perché è
Un nobile scotch

Uno fa calzoni
Dai risvolti umani
Uno ha un solo naso
Uno ha mani e polsi
Uno è su due piedi
Uno è calvo a onde
Uno si nasconde
Poi non sa
In che vano sta”

Equivoci amici

Una considerazione che mi sento di fare, del tutto personale, è che l’utilizzo dell’elettronica, soprattutto per quello che riguarda le parti ritmiche,  fa si che il respiro dei brani , a volte, sia un po’ “rigido”. Questo perché in quegli anni, in cui gli strumenti elettronici erano quasi una novità, era molto complesso variare all’interno di un brano, ad esempio, la velocità dello stesso. A me personalmente a volte manca l’andamento più libero, da questo punto di vista, con i suoi rallentando ed accelerando, della prima produzione di Battisti.

Bisogna specificare però che, da allora fino ad oggi, indipendentemente dal fatto che le canzoni siano eseguite con strumenti elettronici o tradizionali, la velocità non è più stata utilizzata in modo creativo nei brani di musica leggera. Ogni canzone infatti ha una sua velocità che viene mantenuta costante durante tutto il pezzo il che fa perdere alla musica una delle maggiori armi espressive. Ma questa è la legge del mercato che presiede al consumo della musica leggera.

Tornando a “Don Giovanni” probabilmente questa staticità nell’andamento era proprio ricercata da Lucio Battisti anche perché si sposa molto bene con il suo modo di cantare che, quantunque estremamente riconoscibile e personale, si rivela volutamente  più asettico e distaccato rispetto alla sua produzione precedente.

La Title track “Don Giovanni” è probabilmente non solo uno dei più bei brani dell’album ma anche uno dei più interessanti dell’intera produzione di Battisti.

Comincia con un ritmo di ispirazione latina esaltato, in questo caso, proprio dall’uso delle percussioni elettroniche.

Anche in questo caso la struttura è abbastanza “sghemba” e non del tutto regolare. La melodia però è un capolavoro e tutta l’atmosfera è estremamente coinvolgente

Don Giovanni

All’inizio un bellissimo verso:

L’artista non sono io. Sono il suo fumista”.

A un certo punto, nel testo, arriva una frecciatina , neppure tanto velata, a Mogol:

Che ozio nella tournée , di mai più tornare. Nell’intronata routine del cantar leggero. L’amore sul serio. E scrivi che non esisto quaggiù. Che sono l’inganno.
Sinceramente non tuo”.

Il disco si chiude con un altro brano molto bello “Il Diluvio” che ha un testo particolarmente interessante nel quale è racchiuso quasi un testamento spirituale perché, verso la fine arrivano questi versi:

Noi, la fortuna degli ombrellai. Chili di liquidi dopo di noi. Dopo di noi il bello verrà, finché terrà l’ombrello”.