Una perla estratta da “Grace”, suo album di esordio

Puntata numero settantasei

Nella storia della musica leggera possiamo trovare varie tipologie di artisti.

Ci sono quelli con alle spalle una carriera decennale che, pur tra alti e bassi sono riusciti, nel tempo a mantenere una costante vena creativa e la capacità di innovarsi.

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Altri hanno avuto un periodo d’oro, durato anni o un decennio al termine del quale hanno continuato, visto l’esaurirsi della vena creativa, a ripetere  in continuazione il modello che li aveva portati al successo. Alcuni di questi sono anche rimasti disperatamente ancorati al passato finendo per riproporre costantemente  cliché  ormai anacronistici.

Poi ci sono gli autori di quelli che vengono definiti “One hit wonder”, cioè, che hanno avuto un solo brano di enorme successo dovuto ad un misto di bravura, fortuna e intuizione di mercato,  che successivamente non sono più riusciti a ripetersi finendo nell’oblio.

Infine ci sono gli autori e interpreti che hanno fatto intravvedere strade nuove e capacità creative di prim’ordine il cui cammino artistico è stato però interrotto bruscamente dal destino. Questi hanno lasciato il pubblico nel rammarico di non poter mai sapere a quali risultati avrebbe potuto portare la loro creatività e la loro bravura.

In questo ultimo gruppo uno dei nomi più importanti è, senza dubbio, quello di Jeff Buckley.

Jeff Buckley

A volte mi viene chiesto quali siano le caratteristiche che mi fanno prediligere un interprete rispetto ad un altro. La mia risposta è sempre la stessa. Io amo gli interpreti che si mettono al servizio della canzone o del brano che stanno eseguendo e non quelli che prediligono mettersi “davanti” al brano per farci capire quanto siano bravi.

Per fare un esempio è come quando si va al cinema a vedere un film. Si provano delle emozioni. Si può ridere o commuoversi, spaventarsi, piangere o essere terrorizzati. Quando si esce dal cinema e si comincia a riflettere su quanto visto  si capisce che tutte le emozioni provate sono dovute, oltre che alla storia, alla sceneggiatura e quant’altro, anche, e a volte soprattutto, alla bravura degli attori che hanno recitato.

Ma all’interno del cinema non ci si preoccupa della bravura degli attori perché quello che interessa sono le emozioni che arrivano. In un secondo momento ci si rende conto che le emozioni sono arrivate anche per quello.

Con la musica è la stessa cosa. Quando ascolto un brano la cosa importante sono le emozioni che mi arrivano. Dopo di questo cerco di capire perché quell’emozione mi è arrivata, come è costruito quel brano, cosa ha fatto quell’interprete per portare quelle emozioni fino a me.

Quasi sempre si tratta di interpreti che, come dicevo prima, mettono se stessi al servizio del brano per cercare di ricavarne tutte le possibilità palesi o nascoste, e non quelli il cui scopo principale è sciorinare le proprie abilità tecniche mettendo in secondo piano la cosa più importante, cioè la musica che stanno eseguendo.

Conseguentemente si capisce che, se le emozioni arrivano all’ascoltatore è grazie alla bravura e alla qualità dell’interprete che ottiene così un duplice scopo: far apprezzare il brano e mostrare anche le proprie capacità.

Jeff Buckley ha sempre messo la musica davanti a sé stesso. Per questo è diventato uno dei più importanti autori e interpreti della musica leggera degli ultimi decenni.

Ha avuto una vita molto breve. E’ nato nel 1966 ed è morto a trent’anni nel 1997 una sera di fine maggio vicino a Memphis.

Era figlio d’arte. La madre era una musicista classica ma, soprattutto, suo padre era il famoso Tim Buckley.

Tim Buckley

Tim Buckley era un cantautore attivo negli anni 60 e 70, estremamente originale  che componeva le sue canzoni  unendo suggestioni di vari generi musicali, con delle venature di jazz. Anche lui morì giovanissimo, addirittura  più giovane del figlio, a causa di un’overdose.

Jeff Buckley, purtroppo, non ha praticamente mai conosciuto suo padre. E’ stato abbandonato ancora prima di nascere. Stando a quanto racconta si sarebbero incontrati una sola volta. Evidentemente però, il suo DNA ha tenuto traccia del fatto di essere figlio di genitori entrambi musicisti.

Durante la sua vita ha pubblicato un solo album, nel 1994, intitolato “Grace”, che è diventato uno dei dischi più importanti di quel decennio, e non solo.  Ha avuto un grandissimo riscontro sia di pubblico che di critica e pareri molto favorevoli da parte di illustri colleghi.

Jimmy Page e Robert Plant dei Led Zeppelin erano suoi grandi estimatori così come Bob Dylan e anche David Bowie ebbe a dire che “Grace” era uno dei dieci album che avrebbe portato su un’isola deserta.

Alcune caratteristiche rendevano speciale Jeff Buckley.

Tra queste il fatto di essere un ottimo chitarrista. Il suo percorso di studi è stato approfondito. Ha frequentato il famoso G.I.T (Guitar Institute of Technology) di Los Angeles suonando contemporaneamente in molti locali dove si esibiva da solo perfezionando così la sua tecnica sullo strumento.

Ma il suo vero asso nella manica era la sua straordinaria qualità vocale. Aveva una tavolozza espressiva molto ampia e passava con facilità da registri soffusi e introspettivi a quelli molto acuti . Controllava perfettamente le dinamiche miscelando “fortissimo” di chiara matrice rock con momenti più tenui, tipici delle “ballate”, che sapeva eseguire con grande maestria. Sapeva utilizzare in modo personale molte delle caratteristiche che uno strumento così duttile come la voce sa offrire ad un interprete con un cuore e una sensibilità profonde come lui aveva.

La sua carriera decollò quando, agli inizi degli anni 90, venne invitato a partecipare ad un concerto per onorare la memoria di suo padre. Praticamente era uno sconosciuto. Uno degli organizzatori scoprì che Tim Buckley aveva un figlio, anch’esso cantautore, è lo chiamò ad esibirsi. L’esibizione di Jeff Buckley ebbe grande risonanza. Divenne famosa anche un’intervista che fece in quell’occasione dove ebbe a dire, molto amaramente:

Ho un grande ammirazione   per Tim anche se alcune cose che ha fatto mi imbarazzano enormemente. Ma delle cose che ha fatto alcune erano grandi, e lo resteranno. Ma questo è quanto. Lo rispetto come si rispetta un collega e un artista perché realmente non è mai stato mio padre”.

Qualche anno dopo quell’esibizione una delle più importanti case discografiche la “Columbia Records” lo pone sotto contratto e, nel 1994, viene pubblicato “Grace” che rimane l’unico suo album registrato in vita.

“Grace” ha avuto una gestazione abbastanza problematica perché Jeff Buckley non sapeva esattamente con quali musicisti avrebbe registrato. Fece molte session di prova che durarono qualche mese. Arrivò poi a formare un nucleo ristretto di collaboratori con i quali avrebbe cominciato le registrazioni. Nucleo ristretto perché si tratta di una formazione tipicamente rock formata da chitarre, basso, batteria, organo in qualche traccia e, raramente, un sottile tappeto di archi.

“Grace” è un album rock anche se questa definizione è un po’ limitativa perché i sapori e le suggestioni che sa offrire sono, in realtà, molto più variegati.

E’ stato definito un album dove dominano i chiaroscuri ed è una definizione che mi trova d’accordo. Per ascoltarlo bisogna mettersi nell’ordine di idee di lasciarsi coinvolgere da atmosfere ora tenui, ora molto più “power”, ora grintose, a volte quasi colloquiali.

Il brano di apertura, “Mojo Pin”, è una chiara testimonianza di tutto questo

Mojo Pin

Questo inizio ci permette di capire quali saranno alcune delle atmosfere che caratterizzeranno l’intero album. Ci sono cambiamenti repentini di dinamica, di espressione. C’è un utilizzo della musica in senso quasi drammaturgico. Non è solamente una base di supporto alla linea vocale ma tratteggia, scolpisce fornendo essa stessa elementi importanti alla narrazione. Questo fattore lo ritroveremo, all’ennesima potenza, nel brano che poi analizzeremo più nel dettaglio.

La “title track” dell’album è un brano abbastanza diverso. E’ molto più “power”, più grintoso.

E’ caratterizzato sia da un grintoso “riff” di chitarra sia, soprattutto, da un utilizzo della voce molto più rock, con sonorità aggressive mutuate, probabilmente, da quelle di uno dei cantati preferiti da Jeff Buckley, il vocalist  dei Led Zeppelin, Robert Plant.

Questo è il finale di “Grace”

Grace

In questi due brani si possono notare alcuni dei colori vocali di Jeff Buckley , da quelli più sfumati  a quelli più presenti e vividi. Ma la sua tavolozza espressiva è fatta di mille sfumature e lui le utilizza al meglio in uno dei brani più importanti di questo album.

Si tratta, in realtà, della cover di un pezzo famosissimo di Leonard Cohen intitolato “Hallelujah”. E’ un brano che ha visto molte rivisitazioni da parte di artisti di tutti i generi ma la versione di Jeff Buckley, secondo me, è una delle più centrate ed espressive.

Ci sono solamente una voce e la chitarra elettrica. All’inizio sentiamo un profondo sospiro e tutta l’introduzione è di pregevole fattura perché, da un punto di vista degli accordi, ci sono alcune soluzioni veramente interessanti. Questo fa chiaramente capire quale sarà l’atmosfera generale del brano, tenue e delicata ma con una forte personalità, che poi risalta, ancora di più, quando entra la voce

Hallelujah

Proprio alla fine di questa esecuzione abbiamo una perfetta dimostrazione di utilizzo della tecnica al servizio dell’espressività. Jeff Buckley tiene infatti due note vocalmente lunghissime, la prima quasi infinita, che rappresentano il suggello di tutta l’atmosfera del brano ed è un momento veramente toccante.

Ma, anche rischiando di andare un po’ controcorrente rispetto a quanto potete leggere o ai pareri riguardo questo album, per me il momento clou dell’intero lavoro è un brano intitolato “Lilac Wine”.

E’ un brano che è stato composto da James Shelton negli anni 50 per uno spettacolo il cui titolo era “Dance me a song”. Questa origine ha influenzato la struttura del brano perché “Lilac Wine” non è la classica canzone che prevede un’alternanza di strofe e ritornelli. E’ costituita dalla ripetizione di due elementi un “recitativo” ed una parte più melodica.

L’alternanza tra queste due parti viene ripetuta tre volte con delle piccole varianti nella durata delle singole sezioni. Tutto questo rende la canzone, passatemi il paragone un po’ forzato, simile ad un’aria d’opera.

Jeff Buckley riesce a “tirar fuori” da questo brano tutta la potenzialità drammaturgica, a volte inespressa, che ad altri interpreti meno attenti, è passata inosservata.

Il titolo della canzone è quasi intraducibile in italiano.

“Lilac Wine” indica un tipo di vino aromatizzato al lillà, praticamente fatto da vigne che si trovano vicine a campi di lillà. Questo è un ulteriore esempio di quanto, a volte, la lingua inglese sia più concisa e diretta di quella italiana, risultando adatta ad esprimere in poche parole quello che nella nostra lingua richiederebbe circonlocuzioni molto più ampie.

Il vino così prodotto è molto inebriante ed annebbia la mente del protagonista che così racconta:

Mi sono perso in una notte fredda ed umida

Mi sono abbandonato in quella luce nebbiosa.

Ero stato ipnotizzato da uno strano piacere

Sotto un albero di lillà

Ho fatto il vino dall’albero di lillà.

Ho messo il mio cuore nella ricetta

Mi fa vedere quello che voglio vedere

ed essere ciò che voglio essere

Quando penso più di quanto voglia pensare

Fare cose che non dovrei mai fare

Bevo molto di più di quanto avrei dovuto bere

Perché questo ti riporta indietro da me”

Il brano inizia con un “recitativo” in minore che ti fa subito capire quanto possa essere espressiva la musica anche in una canzone

Lilac Wine inizio

Dopo questa strofa-recitativo, comincia la parte melodicamente più importante del brano.

La canzone si apre.

Per prima cosa il brano modula in una tonalità maggiore e quindi l’atmosfera si alleggerisce di molto.

Poi abbiamo un rapporto molto interessante tra melodia ed accompagnamento. Infatti, mentre la musica scende progressivamente con una figurazione che abbiamo incontrato altre volte, quella di un basso che esegue una linea discendente simile al “basso di lamento” del periodo barocco, la linea vocale sale anch’essa progressivamente. L’insieme di questi due elementi è molto coinvolgente e toccante da un punto di vista emozionale

Primo ritornello

A questo punto il brano quasi si ferma e parte il secondo recitativo.

La carica drammatica e la tensione crescono ulteriormente anche se, paradossalmente, la musica si asciuga.

Il testo racconta:

“Ascoltami … Non riesco a vedere chiaramente

E lei che sta arrivando verso di me?

Vicino a me?”

Ma più di quello che viene detto è importante il modo col quale Jeff Buckley lo dice

Secondo recitativo e secondo ritornello

Dopo di questo comincia la parte finale del brano con l’ultimo recitativo e l’ultima ripresa melodica, entrambi un po’ più corti del solito.

Di notevole c’è, ancora una volta l’intenzione interpretativa di Jeff Buckley quando intona le parole:

“Ascoltami, perché è tutto così confuso?

Non è che lei, o forse sto solo impazzendo?”

E quando pronuncia la parola “crazy” la sua voce raggiunge una vetta espressiva notevolissima.

Poi, nell’ultima parte melodica, il brano quasi si racchiude su se stesso sul verso:

“Vino di lillà, non i sento pronto per il mio amore

Finale

Questa esecuzione del brano è un capolavoro. C’è poco da aggiungere.

Lilac Wine” è stato interpretato anche da altri esecutori. Di rilievo c’è una versione della cantante e pianista jazz Nina Simone degli anni 60, che ne esalta l’animo un po’ “bluesy” e gospel.

Secondo me però, e perdonate il parere del tutto personale, la versione di Jeff Buckley è inarrivabile.

Dopo questo album vi furono varie tournée di notevole successo, in tutto il mondo, che tennero impegnato Jeff Buckley per un paio d’anni.

Al termine di questa serie di concerti stava preparandosi per il secondo album che avrebbe dovuto registrare a Memphis, in Tennessee.  

Wolf River

La sera del 29 maggio 1997, proprio il giorno prima dell’inizio delle registrazioni, stava tornando a casa con un amico su un furgoncino e si trovò a passare accanto al “Wolf River”, un affluente del Mississippi. A Jeff Buckley venne l’idea di farsi un bagno per rinfrescarsi.

Era un nuotatore provetto.

Ma entrò in acqua con tutti i vestiti canticchiando “Whole Lotta Love” uno dei brani del suo gruppo preferito, i Led Zeppelin.

Lo ritrovarono cinque giorni più tardi.

Non aveva  alcool ne droghe nel suo corpo.

Ma aveva solo trent’anni.