Una chitarra che parla
(e canta)
Puntata numero cinquantaquattro
Nel 1998 il famoso chitarrista dei Queen, Brian May, stava registrando un brano intitolato “Another World”, che sarebbe poi stato pubblicato nel suo secondo album da solista e così racconta:
“Venne qui da me in studio, la suonò insieme a me e ci facemmo una risata. Suonò cose incredibili. Ancora una volta, mi cadde la mascella. Non riuscivo davvero a prendere in mano una chitarra quando eravamo nella stessa stanza, perché era davvero incredibile, io volevo solo guardare e ascoltare. “
Il musicista, e chitarrista , che suscitava così tanta ammirazione e timore reverenziale in Brian May, che non era certo un novellino, è quello che è stato definito, da tutti gli addetti ai lavori con una frase il cui senso compiuto non è perfettamente traducibile in italiano :
”He is the One of One”, che più o meno vuol dire l’unico e il solo……Jeff Beck.

Spesso mi viene chiesto quale sia il criterio con il quale scelgo i vari brani che fanno parte di questi racconti. Non esiste, in realtà, un solo metodo nella scelta. A volte sono composizioni che io ritengo significative e adatte a spiegare alcuni concetti, secondo me, fondamentali della musica. Altre volte propongo brani particolarmente rappresentativi di determinati generi musicali spesso misconosciuti. Il fatto che mi piacciano è un altro elemento determinante nella scelta.
Infine alcuni brani sono stati oggetto in passato di seminari, incontri, lezioni o workshop che ho tenuto nelle varie Accademie che ho frequentato in questi ultimi anni.
Poi ci sono state scelte del tutto estemporanee, dettate da fattori contingenti o da scoperte particolarmente interessanti che sentivo l’urgenza di far conoscere.
Questo è stato il caso, ad esempio, del racconto su Lili Boulanger .(puntata n. 37), compositrice scoperta casualmente mentre lavoravo su un brano di Erik Satie.

Anche quella di oggi è una puntata dovuta ad un incontro, anzi a un re-incontro, se così si può dire, del tutto inaspettato, che ho avuto la settimana scorsa. Un incontro che mi ha praticamente “costretto” a parlare di un brano “Let It Be Me”, appunto, e di questo grandissimo artista, personaggio del tutto particolare e unico, appunto, nel suo genere.
Come immagino alcuni di voi sappiano la settimana scorsa, purtroppo, è venuto a mancare Jeff Beck uno dei chitarristi rock più importanti e più carismatici degli ultimi cinquant’anni.
Ovviamente sui giornali, sui social e su tutte le riviste specializzate, si è parlato molto di questo artista. Tante sono state le commemorazioni, alcune veramente toccanti, ad opera di artisti o di semplici fan che hanno elogiato sia il musicista che l’uomo. Grande è stata la sorpresa per questa scomparsa perché nonostante la non giovanissima età, 78 anni, in realtà Jeff Beck ha calcato, come si suol dire, il palcoscenico fino all’ultimo, praticamente fino a un mese fa.

Tra tutti i racconti e i ricordi mi ha colpito la dichiarazione di Carlo Verdone che, oltre a essere il famoso regista che conosciamo, è anche un grande appassionato e conoscitore di musica rock. Oltre a esprimere il suo dispiacere per la scomparsa di quello che ha definito “un pezzo della mia giovinezza”, terminava la sua dichiarazione di amore artistico per Jeff Beck dicendo, più o meno:
” Se volete capire chi era veramente ascoltate un brano tratto dall’ultimo disco, dell’estate 2022, fatto insieme al suo amico Johnny Depp, intitolato “Midnight Walker”.
Essendo Verdone un esperto nel genere ho pensato di seguire il consiglio e ho ascoltato questo brano che è molto interessante, ben fatto ed esplicativo dello stile di Jeff Beck e della sonorità della sua chitarra.
Ma il vero colpo di fulmine è avvenuto subito dopo quando l’applicazione usata, è andata avanti proponendo l’ascolto del brano successivo.
Io ero distratto perché impegnato nel rifinire un lavoro che stavo portando a termine ma, iniziato il brano, mi sono fermato, colpito dal suono di una chitarra che sembrava parlare e raccontare di emozioni e sentimenti.
Un suono estremamente espressivo che mi ha aperto un mondo.
Devo premettere che non sono mai stato un fan sfegatato o un profondo conoscitore di Jeff Beck. Dei chitarristi della sua generazione ho rivolto l’attenzione, per una serie di motivi più, ad esempio su Jimmy Page, dei Led Zeppelin o Eric Clapton .
Facendo un paragone un po’ particolare che mi è venuto in questi giorni, Jeff Beck, per me, era come un compagno di scuola. Non uno di quelli frequentati più assiduamente, ma, piuttosto, uno in disparte, che stava nell’ultimo banco, magari col quale avevi avuto momenti di sintonia particolare durante una gita scolastica, ma poi, col tempo, lo avevi perso di vista preferendo altre “amicizie musicali”.

Di Jeff Beck mi piacevano alcuni brani. In particolare una sua versione di un classico di Stevie Wonder intitolato “Cause we’ve ended as lovers” tratto da un album intitolato “Blow by Blow”. Mi intrigava una sua rivisitazione di un classico di Charles Mingus “Goodbye Pork Pie Hat” di cui abbiamo ampiamente parlato nella puntata numero 21, analizzando la versione che lo stesso Mingus ha registrato in collaborazione con Joni Mitchell.
Poi, come detto, musicalmente l’ho un po’ perso per strada fino, appunto, alla settimana scorsa quando, dopo il brano proposto da Verdone ho ascoltato “Let t Be Me”.
Questo brano fa parte di un disco registrato con il suo grande amico Johnny Depp qui nella veste , ovviamente, di cantante e non di attore.

L’album si intitola “18” perché, come da loro raccontato, questa è l’età che i due si sentivano quando hanno deciso di divertirsi, ma con un grande impegno ovviamente, nella realizzazione di una serie di brani rappresentativi dei loro gusti e della loro amicizia.
Questo disco è stato registrato appunto quando Jeff Beck aveva 78 anni, età nella quale molte persone fanno fatica anche a stare a casa in pantofole. Lui però era in perfetta forma sia fisicamente che, soprattutto, musicalmente.
La chiave di lettura di questo brano è , come detto, il suono. L’inizio è solo della chitarra elettrica. Il suono è bellissimo, particolare, caldo e molto “umano”
Spesso dico che se gli occhi sono lo specchio dell’anima, spesso lo è anche il suono, sia della voce che di uno strumento, se c’è un anima dietro. Il suono di questa chitarra così penetrante è indubbiamente lo “specchio” dei sentimenti e della sensibilità di questo artista.
Se vogliamo cercare di capire, per quanto alcune cose non si possano spiegare, come riusciva ad ottenere una sonorità e un fraseggio così personali , possiamo dire che Jeff Beck utilizzava alcune tecniche particolari.

La prima è data dal suonare pizzicando le corde non col plettro, come la quasi totalità dei chitarristi, ma con le dita ottenendo così un controllo totale di tutte le possibili sfumature di volume e dinamica. Inoltre faceva un uso molto particolare della “leva del vibrato”. E’ una leva appunto, inserita sul ponticello della chitarra, azionando la quale si riesce ad aumentare o diminuire la tensione delle corde andando così alla ricerca di tutte quelle diverse intonazioni che stanno tra un tasto e l’altro e che, altrimenti non si potrebbero realizzare su uno strumento con i tasti come la chitarra. In pratica, passatemi l’esempio un po’ azzardato, è l’effetto che usano comunemente i suonatori di Sitar modificando , con le dita, la pressione sulle corde ottenendo in questo modo molti suoni diversi.

Per farvi capire un po’ meglio, visto che a parole è difficile descrivere un suono, vi propongo l’ascolto dell’inizio di una versione dal vivo del brano di cui parlavo prima, “’Cause we’ve ended as lovers” che è molto esplicativa in quanto, essendo una versione solo strumentale, la chitarra si trova ad eseguire una parte destinata ad uno strumento dalle caratteristiche completamente diverse come la voce
Già nell’esposizione di questo tema ci si può rendere conto della varietà di fraseggio e sonorità ottenute, da quelle più aggressive a quelle più delicate, dalle note legate a quelle staccate. Non ci sono note con la stessa dinamica. Ogni suono è pensato e curato nei minimi dettagli per rendere al meglio l’idea musicale e il “feeling” che Jeff Beck vuole trasmettere.
Nel filmato di questo brano, tra l’altro, c’è una scena che fa capire anche lo spessore umano del personaggio.

Alla fine dell’esposizione del tema, infatti, parte l’assolo della bassista Tal Wilkenfeld che all’epoca penso avesse poco più di vent’anni. Ebbene Jeff Beck segue ammirato l’assolo di questa giovane collega applaudendola in modo affettuoso alla fine e invitando il pubblico a fare altrettanto dimostrandosi generoso e per nulla autoreferenziale.
La sua abilità nel far cantare il proprio strumento lo ha portato a cimentarsi anche in imprese da far tremare i polsi a chiunque come quella di affrontare brani “cantabili” totalmente inadatti a uno strumento come la chitarra elettrica che, seppur aiutato dall’amplificazione, ha nella possibilità di sostenere le note il suo “tallone d’Achille” come accade per la maggior parte degli strumenti a pizzico.

Uno di questi è un brano tra i più famosi dell’intera storia dell’opera lirica. Un’aria che fa della cantabilità la sua arma vincente, famosa in tutto il mondo. Si tratta di “Nessun Dorma” dalla “Turandot” di Puccini che, senz’altro, tutto voi conoscerete.
Per affrontare un brano del genere con la chitarra bisogna essere un genio o un pazzo. E lui certamente pazzo non era.
Penso che anche Puccini sarebbe stato contento di questa versione perché era un uomo di mondo , estremamente intelligente e avrebbe colto l’atto di amore e di rispetto che Jeff Beck ha avuto nei confronti di questo capolavoro della storia della musica.
Arrivando al brano oggetto di questo racconto, Let It Be Me, è importante dire come, in origine , sia stato pubblicato in Francia negli anni 50 col titolo di “Je t’appartiens” e reso famoso da Gilbert Becaud. Poi, come spesso accade, gli americani, avendo notato la cantabilità della linea melodica, lo hanno fatto proprio aggiungendo un testo in inglese così come hanno fatto, ad esempio con “My Way”, portata al successo da Frank Sinatra che deriva dalla francese “Comme d’Habitude”.
Let It Be Me è una di quelle canzoni che io definisco, scherzosamente, a rischio effetto “Love Boat” che era una serie televisiva anni 80 molto sentimentale, molto dolce, quasi dolciastra, un po’ mielosa, a volte melensa e un po’ pacchiana. Se affrontato in un certo modo, infatti , è un brano che rischia non di essere romantico ma di finire nel kitsch.

Una delle versioni più famose è quella di Elvis Presley degli anni 70. Elvis, con la sua classe si mantiene sul crinale. Il brano si mantiene in bilico rischiando, ad ogni piè sospinto, di cadere nel romanticume anche perché tutto, intorno a lui, a cominciare dall’arrangiamento degli strumenti ad arco, trama per far sembrare il brano più sdolcinato di quello che è.
Elvis resiste……quasi sempre.
Queste sono le prime due strofe con l’inciso e penso vi renderete conto abbastanza facilmente, di quello di cui sto parlando
Questo brano è stato registrato da molti cantanti famosi : Bob Dylan, Roberta Flack, Nina Simone, anche gli italiani New Trolls ne hanno fatto una versione, Kenny Rogers, Julio Iglesias per citarne solo alcuni.
Nella versione di Jeff Beck e Johnny Depp, il brano si presenta con un’atmosfera completamente diversa, più asciutta e personale.

L’inizio è solo della chitarra il che stabilisce subito il clima dell’esecuzione, molto particolare e piena di significato
E’ una versione che va direttamente al sodo, all’essenza del brano. Tolti tutti gli orpelli questa canzone si dimostra per quello che è, romantica al punto giusto e toccante.
Le sonorità vincenti sono due perché, oltre a quella della chitarra, c’è anche il suono della voce di Johnny Depp che in un contesto di questo tipo non conoscevo , essendo lui più un rocker. E’ una voce che ha una qualità e un timbro notevoli, profondi senza essere troppo pieni e molto fermi senza inutili virtuosismi, un suono tutto sostanza esaltato anche da una tecnica di registrazione sopraffina.
Dopo questo inizio c’è la seconda strofa, anch’essa cantata, cui segue l’inciso, che probabilmente è la parte più debole del brano dal punto di vista melodico. Viene affrontato, ancora una volta da Jeff Beck che fa letteralmente parlare il suo strumento riuscendo a raccontare la passione e il sentimento con poche ma efficacissime pennellate di colore
Rick Beato che è un produttore, musicista e didatta americano estremamente importante , notava, in un suo video di qualche mese fa, come, in effetti, sui vari canali social fossero molto scarsi i video didattici contenenti trascrizioni delle esecuzioni di Jeff Beck sostenendo, secondo me giustamente, che il motivo risiedesse nella sua inimitabilità .
Il suo modo di suonare, infatti, non si può spiegare efficacemente a parole e, tantomeno, trascrivere su carta. Tutti gli esempi che avete sentito sono estremamente personali, legati all’esecutore, e rappresentano, appunto, lo stile di uno considerato “The One of One”.

A proposito di questo ascoltiamo ancora le parole di Brian May:
“Se vuoi ascoltare la profondità, l’emozione, il suono e il fraseggio, ascolta Jeff Beck.Ha un suono davvero delicato, bello, così incredibilmente creativo e diverso da qualsiasi cosa tu abbia mai sentito. Certo, ovviamente anche lui ha avuto le sue influenze, ma ha portato una voce straordinaria alla musica rock che non sarà mai emulata o eguagliata.
Jeff era completamente e assolutamente unico, il genere di musicista impossibile da definire. Io ero totalmente intimorito da lui.”
Grande articolo: ci voleva !
L’ho riascoltato dopo un pò di tempo e devo dire che è stato veramente uno dei musicisti più interessanti degli ultimi cinquant’anni di musica. Estremamente personale e coinvolgente. Grazie per aver apprezzato.