Franco Scacchi
“La band che visse due volte”
Puntata numero settantuno
“Mi piace il suono. E mi piace anche il silenzio. E, in un certo senso, mi piace il silenzio più di quanto mi piaccia il suono”
“Vorrei fare un album che abbia valore anche tra dieci anni”
Queste sono alcune dichiarazioni rilasciate da un personaggio che potremmo definire un po’ “sui generis”.
Il suo nome è, o meglio era, Mark Hollis, frontman di una band inglese chiamata “Talk Talk”.
Alcune volte nel corso di questi racconti che vanno avanti ormai da circa un anno e mezzo ho esordito affermando: “Questa è una puntata speciale”.
Sarà capitato non più di tre, quattro volte e, in genere, il motivo è che in quel racconto magari parlavo di un personaggio, di una colonna sonora, o di un determinato genere musicale piuttosto che, come faccio di solito, di un brano in particolare.
Questo è un caso diverso dal solito e veramente speciale perché se qualcuno mi avesse detto, all’inizio di questo percorso, che un giorno avrei fatto una puntata sui Talk Talk, molto probabilmente non ci avrei creduto.

E mi sarei sbagliato. In questo racconto cercherò di spiegarvi il perché.
Il motivo principale sta nel fatto che la musica ha dimostrato, ancora una volta nel caso ce ne fosse stato bisogno, che c’è sempre da imparare e che non bisogna mai dare nulla per scontato. Sono frasi che si dicono spesso, a volte per mettersi in pace con la propria coscienza, magari senza crederci fino in fondo.
Invece è realmente così, e questo è uno dei fattori più interessanti nell’avere a che fare con un’ arte così intrigante come quella dei suoni. Ma è un discorso che vale per tutte le arti, ovviamente.
I Talk Talk nascono all’inizio degli anni 80 sulla scia di quel genere musicale denominato Synth Pop o, in modo abbastanza pomposo, “New Romantic” i cui esponenti principali erano, per dire, i Duran Duran . Un tipo di musica che non mi ha mai interessato particolarmente anche perché quegli anni, musicalmente parlando, sono stati spesso definiti come “il periodo dei lustrini e del disimpegno”.

Ebbene, qualche mese fa mi è capitato di leggere un articolo il cui titolo, ispirato a quello di un famoso film di Alfred Hitchcock, “La Band che visse due volte”, mi ha molto intrigato.
L’ho letto e mi si è aperto un mondo che era, lo confesso, a me del tutto sconosciuto. La storia parlava di una band che aveva fatto un percorso completamente opposto a quello che, in generale, fanno molti gruppi musicali o artisti.
Spesso accade, nella storia della musica leggera, che band o singoli autori propongano all’inizio carriera musica sperimentale ed originale, fuori dai canoni universalmente accettati. Questo si traduce, quasi sempre, in uno scarso successo e relativa mancanza di seguito. Molto frequentemente queste band, per motivi che non stiamo qui a sindacare, decidono, ad un certo punto, di virare verso un repertorio più “mainstream“, più facile e di maggior presa verso il pubblico.
Molto più raramente, per non dire quasi mai, si verifica il contrario. E’ estremamente difficile che artisti famosi decidano, improvvisamente, di rinunciare al successo per andare alla ricerca di una musica che sia più gratificante per loro, e che risponda in modo più preciso alle loro esigenze di espressione artistica.

Un caso che mi viene in mente, in Italia, riguarda Lucio Battisti. Nel suo periodo di collaborazione col poeta ermetico Pasquale Panella, quello dei “dischi bianchi”, di cui abbiamo parlato nella puntata numero 62, ha intrapreso un percorso in cui credeva fermamente, passando, come si usa dire “dalle stelle”, del successo, “alle stalle” dell’oblio o quasi.
I Talk Talk hanno fatto proprio questo percorso. Raggiunto l’apice del successo, il loro leader, Mark Hollis, ha deciso di smontare tutto quanto e di ripartire con una musica completamente diversa.

Spesso durante i miei incontri con gli allievi mi viene chiesto quali sono le caratteristiche che una canzone deve avere per suscitare il mio interesse.
La risposta è che, per piacermi, una canzone, o un brano musicale qualsiasi, deve, in qualche modo, sorprendermi. Dovrebbe cioè farmi vedere una strada diversa, o una soluzione, inaspettata. Mi aspetto che la musica mi faccia fare un percorso diverso da quello più logico, un percorso che alla fine, mi possa riportare “a casa” arricchito rispetto all’inizio del viaggio.
Questo è esattamente quanto ho scoperto nella produzione musicale del secondo periodo di questa band.
La metamorfosi artistica dei Talk Talk è veramente un fenomeno interessante. Nell’ambito internazionale possiamo in parte fare un parallelo con i Radiohead che hanno intrapreso un percorso simile.

Nel 1982 producono il loro primo album “ The Party’s Over” pienamente rispondente ai canoni del genere di moda, quel “New Romantic” di cui parlavo prima.
Il loro produttore, non a caso, era lo stesso che aveva portato al successo la band di punta di quel periodo, i Duran Duran.
Ma nella fase di produzione del loro secondo disco “It’s My Life” del 1984, il loro produttore se ne va per evidenti divergenze artistiche con Mark Hollis. Questo può già far pensare che, probabilmente, qualcosa di diverso cominciava ad affiorare sotto la superficie scintillante.
Il loro secondo è un album di grande successo con alcuni brani di punta tra i quali questo, intitolato “Such a Shame”, trionfo delle sonorità “eighties” che qualcuno si ricorderà
Altro successo, sempre estratto da questo album è il brano omonimo “It’s My Life” il cui video, peraltro simpatico, è tipicamente anni 80 e risulta oggi un po’ datato
Dopo questi successi, contro ogni previsione, Mark Hollis decide di cambiare completamente strada. Si fa aiutare e spalleggiare in questo da un componente della band, Tim Friese Greene, che all’inizio era solo il nuovo produttore, entrato successivamente, in pianta stabile, nell’organico.

Lo scopo dichiarato sarà quello di produrre una musica che rispecchi maggiormente le loro passioni e i loro gusti. Su volontà di Mark Hollis che più volte ha ammesso di non sopportarli, vengono abbandonati tutti gli strumenti elettronici, i sintetizzatori, per andare alla ricerca di sonorità più acustiche e particolari utilizzando anche strumenti un po’ passati di moda come l’organo elettrico.
Il primo risultato di questa inversione di rotta è l’album del 1986 “The Colour of Spring”.

Questo disco rappresenta un momento di passaggio molto significativo. Ha le radici nel passato ma i rami, le foglie e i frutti sono protesi verso quello che sarà il futuro della band. In pratica un’alchimia, un mix equilibrato che viene capito, sostenuto e compreso dai fans della band che ne decretano il grande successo anche commerciale.
Il gruppo si allarga e vengono invitati personaggi importanti quali Steve Winwood all’organo o David Rhodes e Robbie Macintosh alle chitarre.
Il successo di questo album creerà, ma lo vedremo più avanti, non pochi problemi negli anni successivi tra la band e la casa discografica.
La traccia di Apertura “Happines is Easy” è un chiaro esempio dello stile che caratterizzerà tutto il lavoro.
Comincia con un lungo “pattern” di batteria che si ripete più volte, sul quale si innestano degli strappi di chitarra sia acustica che elettrica. Tutta l’enfasi è riposta nella ricerca di una sonorità generale particolare. A un certo punto entrano il basso elettrico poi un suono di contrabbasso che esegue fraseggi abbastanza frenetici. Il vero momento geniale però lo abbiamo al minuto 2’ e 08” quando il suono di un coro di bambini arriva all’improvviso. L’effetto è accattivante e l’atmosfera diventa magica e carezzevole contemporaneamente
Questo è un brano che, come avete potuto sentire, si distacca completamente dalla produzione precedente.
La musica si asciuga. Vengono tolti tutti gli elementi in più, tutti gli orpelli. Lo scopo di tutto il lavoro è quello di ridurre la costruzione delle canzoni agli elementi essenziali, quelli, per intenderci, senza i quali il brano non starebbe in piedi.
Nelle pieghe di questo album, tra i brani di maggior successo, sono nascosti due gioielli che aprono una finestra su quello che sarà il futuro sviluppo del percorso che Mark Hollis e i suoi intraprenderanno con in due album successivi. Sono “April 5th” e soprattutto “Chameleon Day”, un brano quasi minimalista con atmosfere molto rarefatte. L’intuizione musicale e l’ambientazione sonora di questi due brani rappresentano la cifra stilistica di tutta la loro produzione da quel momento in avanti.

Dopo il successo di “The Colour of Spring” i Talk Talk, che hanno avuto carta bianca dalla loro casa discografica, si chiudono per mesi in uno studio di registrazione ricavato da una vecchia chiesa sconsacrata.
Chiamano intorno a sé molti musicisti e strumentisti anche di estrazione classica e nel 1988 producono “ Spirit of Eden” che viene definito dalla critica il primo esempio di “Post Rock”.
Onestamente non capisco né il bisogno di etichettare sempre qualcosa, operazione in cui la critica è spesso maestra, né il senso di tale definizione applicata a questa musica perché, secondo me, i brani di “ Spirit of Eden” hanno molto poco a che fare con il rock così come generalmente si intende. Le suggestioni sonore di questo lavoro sono molto ampie e vanno da profumi di jazz a spruzzate di musica contemporanea non disdegnando sonorità crude e ancestrali come quelle dell’armonica distorta che compare più volte nelle varie tracce. La costruzione di questi brani, da quello che si sa, ricorda, in parte, i metodi usati in sala di registrazione da Miles Davis. Ore e ore di registrazione per poi estrarre il momento, il frammento ritenuto più interessante.

Va anche sottolineata una convinzione di fondo che permea tutte le tracce e cioè che il silenzio sia altrettanto importante del suono.
Mark Hollis e Tim Friese Greene erano convinti che l’album avrebbe venduto milioni di copie.
Ma non fu così. ” Spirit of Eden” si rivelò un fallimento dal punto di vista commerciale. La svolta troppo radicale spaventò i fans che questa volta non seguirono il gruppo. Questo causò enormi attriti con la casa discografica, che rescisse il contratto accusando il gruppo di non aver rispettato gli standard di commerciabilità.
La leggenda narra che un rappresentante della EMI disse dopo l’ascolto;
“Io non posso stare nella stessa stanza dove c’è questo disco”.
Questo è un album completamente diverso sia rispetto a quelli di quel periodo che a quelli degli anni a seguire.
Come detto all’inizio una delle volontà di Mark Hollis era quella di creare un album che potesse aver valore anche dieci anni dopo la sua pubblicazione. Ebbene secondo me è stato anche troppo modesto. Di anni ne sono passati molto di più e ora anche la critica, in ritardo come sovente le accade, riconosce unanimemente la notevole importanza e la modernità di questo lavoro.

È un album che richiede un approccio maturo, un ascoltatore attivo. Non ci sono brani eclatanti che contengono clamorosi colpi di scena. E’ pieno però di gemme nascoste qua e la di fiori che vanno guardati con attenzione per non calpestarli e perderli. Va ascoltato con attenzione con un buon impianto o delle buone cuffie lasciandosi trasportare da un’atmosfera che diventa sempre più magica.
Comincia, per dire, con tre brani legati uno all’altro, come fossero elementi di una suite. Brani in cui le sonorità non sono solamente delle suggestioni ma rappresentano elemento costitutivo importante e imprescindibile della costruzione sonora.
Uno dei momenti topici di questo lavoro è “I Belive in You” .
Mark Hollis la dedica al fratello, morto per overdose.
Il testo, minimale e pieno di cose non esplicitate, a un certo punto racconta:
“Vale così tanto quando la provi?
Abbastanza, non c’è abbastanza dolore nascosto
E’ un momento per vendere te stesso
Un tempo di passaggio
Spirito
Per qunto tempo
Spirito
Per quanto…..”
E continua a ripetere alla fine “Spirito, per quanto tempo?”
Questo brano ti prende un po’ alla volta avvolgendoti nella sua suggestione sonora.
Ha almeno tre momenti topici che potrete cogliere meglio, al solito, seguendo il file sottostante.
Il primo lo abbiamo al minuto 1’ e 49”. La ritmica, fino ad allora portata avanti solo dai piatti della batteria diventa più incisiva con l’introduzione del rullante e dell’entrata del basso. Questa è la prima svolta sonora importante.
Il secondo al minuto 2’ e 52” quando, dopo un momento di attesa in cui primeggia la linea della voce che diventa via via più melodica, entra l’organo con una delicatezza estrema totalmente coinvolgente da “pelle d’oca”.
Subito dopo siamo avvolti da un coro di sole voci femminili che non pronunciano parole ma solo suoni che fluttuano nel vento e sembrano accennare l”How Long” del testo. Sembrano la rappresentazione dello “spirito” di cui si parla ed è un altro momento topico.
Il brano, per farvi capire l’intenzione generale, comincia in modo inusuale per la musica leggera, con qualche secondo di silenzio
E’ un brano notevolissimo, sia per il periodo che per la storia di questa band.
Tutto l’album ha aperto una strada che poi altri gruppi, Radiohead e Massive Attack in primis, percorreranno negli anni 90 rielaborandone in modo personale le suggestioni.
Due anni dopo i Talk Talk hanno prodotto il loro quinto ed ultimo album “ Laughing Stock”, un lavoro altrettanto interessante che prosegue nel solco tracciato da “ Spirit of Eden”. Dopo questo album la band si è sciolta.
Il silenzio è durato quasi dieci anni. Poi, sul finire degli anni 90 Mark Hollis ha fatto uscire uscire un album solo a suo nome ancora più etereo e minimalista degli ultimi prodotti con la band.
Poi più nulla. Per venti anni non si hanno più avuto sue notizie fino al 2019 quando è stato dato l’annuncio della sua scomparsa le cui cause sono sconosciute.

Un aiuto per capire l’importanza di questo personaggio così atipico e un ‘ulteriore testimonianza della sua grandezza lo abbiamo da un’affermazione di un musicista nato nell’anno di uscita di “The Colour of Spring”, il cantante, compositore e pluristrumentista Hayden Thorpe che riferendosi a Mark Hollis ha affermato:
“Quando ho ascoltato per la prima volta Spirit of Eden, ho pensato che il CD si fosse fuso nello stereo. Non conosco nessun altro a cui posso guardare come un maestro del mestiere pop e un pioniere sperimentale. È stata la sua voce che mi ha guidato: ha trovato ganci in luoghi che sto ancora cercando di capire”.
Such a Shame e It’s My Life Accidenti se me la ricordo anche se non sono Matusalemme! Per il resto che dire ogni gruppo ha una sua storia e come hai detto la musica è un’arte così intrigante! So long!
E’ vero. Questa storia e’ così particolare che fa riflettere. Direi che hanno avuto coraggio e coerenza da vendere.
Beh io me la ascoltavo questa musica durante i lunghi tragitti dalla Valle per andare a scuola; ore di autobus, ore di attesa dei mezzi pubblici…. mi ricordano quel periodo e li ho amati. Li ho amati davvero come gli altri gruppi che hai menzionato. Ovviamenten on avevo tutte le informazioni che mi hai raccontato oggi, perché io non sono mai stata fan di niente e di nessuno; mi limitavo ad ascoltare quello che mi piaceva. Loro erano fra quelli che amavo da adolescente. Grazie sempre per come racconti la Musica, Sandro.
Io invece quando loro erano agli inizi suonavo e seguivo tutt’altro. Ho scoperto la seconda parte della loro carriera solo recentemente e mi ha colpito veramente. Gli ultimi due album sono davvero notevoli e anche “The Colour of Spring” ha delle soluzioni molto interessanti. Ovviamene grazie per l’attenzione che mostri sempre.
Mi fai amare anche I Talk Talk, hai dell’incredibile. Tu sei Musica, al di là dei musicisti di cui scrivi.
Grazie mille.
Sono io che ti devo ringraziare per l’attenzione e per i complimenti Marina. In realta’, come scrivo, sono stati una scoperta del tutto inaspettata e molto piacevole. E quando si ama qualcosa si cerca di raccontarla nel migliore dei modi.
Come disse quel tale citato nell’articolo “l’inizio è indiziario”
Esattamente.