Charles Mingus e Joni Mitchell : la storia di un incontro intorno a un capolavoro
Ventunesima puntata
Il 5 gennaio del 1979 sulla spiaggia di Acapulco, in Messico, si arenarono lasciandosi morire, 56 capodogli.
Nello stesso giorno, sempre in Messico, nella città di Cuernavaca a circa 300 chilometri di distanza, moriva all’età di 56 anni il musicista, compositore e contrabbassista, Charles Mingus.
Questa è la storia di un incontro. Un incontro tra due personaggi particolari , iconici e molto importanti, ognuno nel suo campo, per la musica del Novecento.
Il primo, ovviamente è Charles Mingus, la seconda è la cantautrice canadese Joni Mitchell.
Ciò che unisce questi due personaggi così apparentemente lontani tra loro è l’estrema curiosità artistica, la loro continua voglia di sperimentare e di rischiare per promuovere un’idea musicale, ma non solo, e per affermare il proprio pensiero artistico senza mai sottostare alla moda del momento.
Quest’anno ricorre il centenario della nascita di Charles Mingus e, pensando a lui, mi è tornata in mente quella definizione che Stravinskij diede a proposito di Gesualdo da Venosa di cui vi ho parlato nella Mollica 17 :” Un musicista senza padre e senza figli, un pianeta senza satelliti nella storia della musica”.
Un artista particolare, diverso da tutti quelli che gli stavano intorno.
Per capire un po’ il personaggio, e la sua musica, è impossibile prescindere dalla sua biografia.
Mingus nasce da un padre mulatto, a sua volta discendente da una madre svedese e un padre di colore, e sua madre era metà cinese e metà pellerossa.
Un mezzosangue praticamente. Troppo bianco per gli afroamericani e troppo scuro per i bianchi cioè, come si definì lui stesso nella sua autobiografia pubblicata nel 1971 “ Beneath The Underdog”, al di sotto di un bastardo.

Questa sua condizione di essere un meticcio lo perseguiterà per tutta la vita al punto che sarà sempre ossessionato dagli atteggiamenti di razzismo nei propri confronti, sia da parte dei bianchi che della popolazione nera.
Questo si riverbererà anche nella sua musica dove è sempre presente anche un atteggiamento di denuncia, in molti titoli dei suoi brani ad esempio, nei confronti della società americana da lui ritenuta ingiusta, razzista e ipocrita.
Alla lunga tutto ciò gli causò anche dei disturbi mentali, di cui lui era perfettamente cosciente al punto da inserire nelle note di copertina di un suo disco di grande importanza :” The Black Saint and the Sinner Lady” del 1963 un referto di questo tipo, scritto dal suo psichiatra :” Le sofferenze sperimentate nell’infanzia e poi nell’età matura come persona e uomo di colore, sono state sicuramente sufficienti a indurre in lui una grande amarezza, odio e distorsioni, e per farlo fuggire dalla realtà. Egli è dolorosamente conscio dei propri sentimenti e vuole disperatamente guarire.”
Ditemi chi altro farebbe scrivere una nota di copertina di questo tipo. Lui stesso, del resto si definisce così:” Io sono tre. L’uno sta nel mezzo e non fa che osservare, distaccato e impassibile, per riferire al due e al tre. Il due prova paura e attacca per primo, per mettere l’avversario sulla difensiva. Il tre è socievole, disponibile e pieno di amore verso gli altri e vuole che si riservino a lui gli stessi riguardi. Se, e quando, si accorge che se ne sono approfittati, scatta in lui una rabbia incredibile, ha voglia di spaccare tutto, anche di distruggere se stesso per essere stato tanto babbeo e facilone, ma non ce la fa, e si richiude in se stesso sempre di più.”
La stessa complessità la ritroviamo anche nella musica cui si era avvicinato prestissimo già durante l’infanzia. Cominciò suonando il violoncello ma, ben presto, gli fu fatto capire che per un meticcio come lui non era possibile trovare un lavoro nelle orchestre sinfoniche. Si dirottò quindi sul contrabbasso con lo scopo di diventare il più bravo nel mondo del jazz e ci riuscì.

Ma il suo amore per la musica colta europea, in particolare per Debussy, Ravel Strauss e anche Schoenberg continuò e tutte queste influenze si riverbereranno poi nella sua musica.
Una delle sue caratteristiche, infatti, era quella di scrivere composizioni articolate ma di lasciare, contemporaneamente, grande libertà nell’eseguirle ai suoi musicisti dando così spinta non solo alla parte più improvvisata del jazz ma anche a quella strutturata e compositiva colmando così una carenza che, a volte, era presente nella musica afroamericana.
Nelle sue composizioni le parti strutturate e quelle più improvvisate convivono perfettamente anche quando, nei suoi brani, si spingeva a sperimentare, primo fra tutti, la cosiddetta improvvisazione “free” cioè senza schemi prefissati.
Un’altra sua caratteristica era quella di voler innovare e sperimentare costantemente e questo fatto lo porterà, verso la metà degli anni Settanta, a voler elaborare un progetto, con una cantautrice molto popolare negli U.S.A., Joni Mitchell, dopo aver sentito un brano dal titolo “Paprika Plains” che lei aveva inserito in un suo album doppio:” Don Juan Reckless Daughter”.
Che tipo era, ed è ancora, Joni Mitchell?

In un docufilm a lei dedicato uno degli intervistati definisce così il suo lavoro:” Il suo viaggio all’interno della musica è unico e di valore perché lei non mette mai del rossetto e del make-up sulla verità”.
Joni Mitchell diventa molto famosa sul finire degli anni Sessanta sulla scia del movimento Hippie che caratterizzava un po’ tutti i cantautori americani. Lei però era diversa, musicalmente parlando perché aveva un approccio più libero anche perché utilizzava sulla sua chitarra le cosiddette “accordature aperte” che permettono di ottenere sonorità particolari non riproducibili normalmente.
Ma già nel 1971 pubblico un album:” Blue” col quale voleva affrancarsi dall’etichetta di cantautrice hippie che le veniva assegnata, per produrre qualcosa di più intimo e personale. Disse qualche anno dopo:” In quel periodo della mia vita non avevo difese personali dunque difficilmente troverete una nota di falsità in quell’album.”
Il successo di quell’album, da un punto di vista commerciale, fu clamoroso ma lei, subito dopo, era già alla ricerca di nuove strade e nuove forme espressive. Cominciò a circondarsi di musicisti diversi da quelli che la avevano accompagnata fino ad allora, più attenti alle nuove forme espressive musicali che andavano affermandosi nella prima metà degli anni Settanta. Iniziò anche a comporre brani completamente diversi rispetto a quello che era stato il suo standard fino ad allora avvicinandosi all’espressività della musica jazz.
Importante e rivelatore, fu anche l’incontro con il nuovo astro nascente del basso elettrico, Jaco Pastorius, che la accompagnerà per circa cinque anni introducendola nel mondo e nell’ambiente del jazz americano.
Tutto questo fermento arrivò al culmine nel nel 1977 quando, dopo aver pubblicato un disco bellissimo come Hejira diede, come si suol dire, alle stampe un doppio album il cui titolo è “Don Juan Reckless Daughter” nel quale è inserito un brano “Paprika Plains” quasi sperimentale della durata di 17 minuti, che è la riproposizione di un sogno della stessa Mitchell e che si sviluppa utilizzando parti improvvisate, sezioni orchestrali e un gruppo di musicisti jazz che entrano verso la fine. Questo brano arriva, non si sa come, alle orecchie di Charles Mingus che ne rimane talmente colpito da invitare Joni Mitchell a collaborare per la realizzazione di un progetto.
L’idea di partenza di Mingus era quella di far musicare a Joni Mitchell i “Quattro Quartetti” di T.S.Eliot. Dopo averci provato però la Mitchell rinunciò vista la difficoltà e , a quel punto, la collaborazione tra i due sembrava destinata a finire.
Mingus però teneva molto a lavorare con lei e le propose di scrivere dei testi su alcune sue composizioni.
Una delle prime scelte fu “Goodbye Pork Pie Hat”, un brano che Mingus aveva composto nel 1959 per l’album “Mingus Ah Um” e che era dedicato ad un amico e collega, il sassofonista Lester Young, morto qualche mese prima.

Lester Young era soprannominato “The Pres” cioè il Presidente dei sassofonisti per il suo suono caldo e per l’importanza da tutti riconosciuta nell’evoluzione della musica jazz.
Il titolo è dovuto al fatto che Lester Young era solito indossare un tipo particolare di cappello il “Pork Pie” appunto che era parte integrante del suo look.
“Goodbye Pork Pie Hat” è un brano lento, strutturato su dodici battute, in forma blues. Ha un tema molto particolare ed è diventato successivamente il brano di Mingus più suonato dai musicisti jazz.
Nella versione del 1959, suona in questo modo
La melodia è molto struggente, quasi carezzevole all’inizio, e diventa, via via, sempre più impervia e spigolosa.
Joni Mitchell compone un testo sia su questa melodia sia sulle note dell’assolo di sassofono che segue subito dopo, dimostrando grande capacità di scrittura nonché un ottimo “orecchio” per il fraseggio jazz.
Il solo di sax comincia così
Quale miglior omaggio al “Pres” dei sassofonisti che questo solo con un suono così caldo e con questo fraseggio rilassato e swingante.
Joni Mitchell compose i testi di tutti e sei i brani che verranno inseriti, insieme a spezzoni di registrazioni di vita vissuta con la voce dello stesso Mingus, in un album che si intitolerà, appunto “Mingus” di cui lei, che era anche un’ottima pittrice, al punto di considerarsi tale prima che musicista, disegnerà la copertina così come aveva fatto con quelle dei suoi album precedenti.

Charles Mingus, purtroppo, non riuscì mai a sentire l’album nella sua interezza perché, sofferente già da diversi anni per una forma di SLA, morì, appunto, agli inizi del 1979 quando le registrazioni non erano ancora state ultimate.

Tra l’altro molte furono le discussioni, anche accese, fra i due, su quale dovesse essere la strumentazione più adatta per risaltare la bellezza dei brani. Mingus voleva un ensemble acustico mentre la Mitchell, era maggiormente incline a utilizzare sonorità più moderne ed elettriche.
Alla fine Joni Mitchell chiamò intorno a se, per un altro di quegli incontri che hanno fatto la storia della musica jazz e non solo degli ultimi decenni, il “gotha” dei musicisti più importanti di quegli anni. Oltre allo stesso Pastorius, Wayne Shorter al sassofono, Herbie Hancock al pianoforte e Don Alias alle percussioni, tutti usciti dalla fucina di Miles Davis tra la fine degli anni sessanta e l’inizio del decennio successivo a dimostrazione, se ancora ce ne fosse bisogno, dell’importanza dello stesso Davis , nell’evoluzione della musica del 900.
Il disco fu…….. un fiasco da un punto di vista commerciale perché, tra tutti gli album di Joni Mitchell, fu quello che vendette di meno.

Questo fatto, che avrebbe potuto abbattere qualsiasi artista, fu invece, per Joni Mitchell, uno sprone per proseguire e portare in tournee l’album circondandosi, ancora una volta, dei migliori musicisti presenti sulla piazza. Vista l’impossibilità di avere, Shorter e Hancock, per impegni precedenti, ripiegò, ovviamente si fa per dire, sul chitarrista Pat Metheny, sul tastierista Lyle Mays, entrambi del Pat Metheny Group, e sull’astro nascente del sassofono Michael Brecker oltre ai fidi Jaco Pastorius e Don Alias, in quello che diventò un incontro, quanti incontri in questo racconto, di “All Stars”.
Da questa tournee tra la fine del 1979 e i primi del 1980 sono stati tratti un DVD e un doppio album intitolato “Shadows and Light” ed esiste, anche su YouTube un filmato di tutto il concerto che è assolutamente da vedere perché rappresenta un incontro di artisti che mettono tutto il loro talento e la loro creatività al servizio di un progetto.
Uno dei momenti topici del concerto è, appunto, l’esecuzione di “Goodbye Pork Pie Hat”
Per spiegare la magia di questo incontro e di questa esecuzione ci sono due momenti particolari da sottolineare. Uno è al minuto 3 e 58, il brano dura circa se minuti, quando, durante il “solo “di sax Di Michael Brecker, Joni Mitchell entra eseguendo con grande autorità una nota sostenuta che serve ad aumentare ancora di più il climax del “solo” stesso
L’altro momento topico, che non c’entra direttamente con quanto avviene sul palco ma riguarda il pubblico, si verifica, nel filmato, al minuto 4 e 39 quando la camera inquadra l’espressione di due giovani ragazze piene di stupore e di incredulità per quello cui stanno assistendo.
Non c’è modo migliore di quello sguardo per raccontare la magia di quell’incontro, nato anch’esso da un altro incontro.
In sostanza abbiamo un brano scritto da uno dei più importanti musicisti del 900, Charles Mingus, il cui testo è stato composto da una delle più importanti cantautrici della seconda metà del secolo, Joni Mitchell. Il frutto di questa collaborazione è stato portato in concerto per essere eseguito da una schiera di giovani talenti che hanno messo la loro bravura al servizio di questo progetto.
Quando la musica fa incontrare artisti e pubblico in questo modo, non ce n’è per nessuno.
Grazie per avermi fatto comprendere un aspetto di Joni che non avevo presente conoscendola soprattutto come grande cantautrice folk . Le nuove sonorità jazz sviluppate in questa collaborazione con Mingus sono geniale e sorprendenti
Sono contento di averti fatto scoprire questo aspetto della carriera artistica di Joni Mitchell. In effetti lei è sempre stata molto attratta dalla musica jazz e spesso ha collaborato con jazzisti anche dopo la pubblicazione dell’album “Mingus” . Esiste, ad esempio, e la puoi trovare su YouTube una bella versione di Summertime tratta dall’album Gershwin’s World di Herbie Hancock in cui canta insieme a Hancock appunto, Wayne Shorter al sax e Stevie Wonder all’armonica.