Nell’estate del 53 un miracolo artistico alla “Scala”
Diciannovesima puntata
Può succedere che, a volte, quasi per una sorta di felice combinazione astrale, si ritrovino riuniti nello stesso luogo tutta una serie di personaggi, e di eventi, che hanno, da un punto di vista artistico, quasi del miracoloso.
È quello che è successo, nell’estate del 1953 al “Teatro alla Scala” di Milano, quando, nel corso della stagione operistica di quell’anno, è andata in scena “Tosca “di Giacomo Puccini, con interpreti, Maria Callas, Giuseppe di Stefano, Tito Gobbi e, alla direzione d’orchestra, Victor de Sabata.
Perché quasi miracoloso?
Per cominciare “Tosca” di Puccini è, senza ombra di dubbio, una delle opere più belle e importanti non solo del panorama operistico italiano.
Poi, Puccini stesso è, probabilmente, il più importante musicista italiano vissuto tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo scorso. Molti sostengono che sia l’anello di congiunzione ideale tra la concezione operistica di Wagner con quell’idea di spettacolo totale e di unione voci e orchestra, bellissima ma forse un po’ povera dal punto di vista squisitamente melodico e quella di Verdi, forse meno attento al ruolo e all’importanza dell’orchestra ma molto efficace da un punto di vista melodico.

Sta di fatto che Puccini, era molto rispettato ed amato anche tra i musicisti europei più d’avanguardia del periodo, tipo Arnold Schoenberg, che stavano cercando di aprire un nuovo percorso per la musica occidentale.
In “Tosca” c’è tutto.
Ci sono personaggi con caratteri molto definiti e particolari, estremamente intriganti.
C’è un connubio tra musica, parole e azione che non ha rivali.
Il secondo atto di “Tosca” è un capolavoro per quello che riguarda la capacità della musica di sottolineare, a volte anticipare, lo svolgersi dell’azione, accompagnandone ed enfatizzando i momenti drammatici per rendere al meglio il senso del il testo cantato.
Ci sono anche momenti molto lirici, le cosiddette “arie”. Sono pochi ma memorabili, tipo quella della protagonista “Vissi d’arte, vissi d’amore” e quella di Cavaradossi “E lucevan le stelle” che è l’oggetto di questa Mollica.
Per cui Puccini non si discute, “Tosca” neppure, e in quell’estate scaligera c’erano tre interpreti d’eccezione indiscutibili anche loro.
Maria Callas è tutt’ora uno delle soprano più famose. Oltre all’indiscussa bravura canora era anche dotata di grandi capacità attoriali che le permettevano di scavare veramente nell’animo dei suoi personaggi. Non era perfettissima da punto di vista dell’emissione vocale, forse altre cantanti del periodo, vedi Renata Tebaldi, avevano una sonorità più curata, ma era indiscutibilmente una vera diva del canto lirico con tutto quello di positivo e non, che questa definizione comporta.

In Tosca interpreta, ovviamente la protagonista, Floria Tosca, appunto. Una donna con un carattere molto particolare, passionale e gelosa , fino all’esasperazione, del suo amore Cavaradossi. Questa gelosia rappresenta uno dei motori principali di tutta l’azione. E’ anche molto religiosa e devota come risulta dalla sua aria, la già menzionata e famosa “Vissi d’arte, vissi d’amore”.
Il ruolo di Mario Cavaradossi, il pittore amante di Tosca, è interpretato da Giuseppe di Stefano.
Cavaradossi rappresenta uno dei tipici tenori pucciniani. Spesso, in Puccini, I tenori sono personaggi diciamo, non sempre inappuntabili.
Cavaradossi , tutto sommato, è uno di quelli che si salva perché, pur essendo molto ingenuo e naif, è spinto da nobili ideali che però, a volte, rendono le sue azioni poco logiche e lucide. Non è certamente un bastardo come Pinkerton di “Madame Butterfly”, o un esasperante cocciuto come Calaf di “Turandot” ma anche lui, ogni tanto, combina qualche pasticcio a causa della sua testardaggine.
Di Stefano è stato un tenore con una voce meravigliosa e con una capacità di controllo del fraseggio veramente notevolissima e rappresenta come vedremo tra poco, uno degli interpreti ideali di questo personaggio.

L’altro protagonista che probabilmente è il vero motore di tutta l’azione anche se la storia lo fa morire alla fine del secondo dei tre atti, è Scarpia, il capo delle guardie.
In questa edizione è interpretato dal baritono Tito Gobbi che, probabilmente, è il miglior Scarpia che abbia mai calcato le scene.

Scarpia, come personaggio è molto difficile da interpretare perché rappresenta la quintessenza della cattiveria fine a sé stessa.
E’ molto più perfido di un altro cattivo più famoso come Jago di Otello perché, contrariamente a questi, la sua perfidia non ha nessuno scopo palese. È’, come si suol dire, un “bastardo dentro”.
Per farvi capire il tipo ecco quello che canta all’inizio del secondo atto in un monologo tra se e se quando pensa a come far cadere Tosca fra le sue braccia:
“ Ha più forte sapore la conquista violenta che il mellifluo consenso.
Io di sospiri e di lattiginose albe lunari poco m’appago.
Non so trarre accordi di chitarra né oroscopo di fior.
Ne far l’occhio di pesce o tubar come tortora.
Bramo. La cosa bramata perseguo. Me ne sazio e via la getto, volto a nuova esca.
Dio creò diverse beltà e vini diversi.
Io vo gustar quanto più posso dell’opra divina.”
Questo è Scarpia.
Lui ha questa attenzione particolare nei confronti di Tosca nel senso che vuole portarsela a letto, ma non perché ne sia innamorato. Per lui “questa o quella pari sono”, lui vuole solamente esercitare il suo potere su Tosca e vederla soccombere.
È uno dei personaggi più iconici e rappresentativi non solo di Tosca ma di tutta la storia del melodramma in generale.
Di questa edizione di Tosca esiste una versione su disco che è ancora monofonica, visto il periodo, della quale potete trovare qualche spezzone anche su YouTube e che vale la pena di avere, o scaricare, fate voi, perché anche se non è perfetta dal punto di vista prettamente acustico è uno dei più importanti momenti del teatro d’opera tout court.

L’aria della quale ci occupiamo oggi si intitola “E Lucevan le Stelle” ed è una delle più belle arie pucciniane. Non è così famosa come “Nessun Dorma” della Turandot ma è ugualmente importante.
È l’aria che il tenore Cavaradossi canta all’inizio del terzo atto.
Cavaradossi è stato appena condannato a morte, alla fucilazione. Tosca è convinta che la fucilazione sia simulata in quanto è riuscita ad estorcere a Scarpia, in cambio della promessa di concedersi a lui, un lasciapassare per entrambi per fuggire fuori Roma. In realtà Scarpia ha fatto credere a Tosca che la fucilazione sarebbe stata a salve ma era una finzione per convincerla a concedersi a lui.
Anche Tosca, del resto, ha ingannato Scarpia ,con la falsa promessa di sottostare alle sue voglie, per poi ucciderlo con un coltello trovato sulla tavola imbandita.
Cavaradossi è all’oscuro di tutto questo e sta attendendo lo scoccare della sua ora e, nell’attesa, canta la sua aria che, in sostanza, è il suo addio alla vita.
E questo addio è pregno del ricordo di Tosca e dei momenti di felice intimità trascorsi assieme.
Questo è il testo :
“ E lucevan le stelle, ed olezzava la terra
Stridea l’uscio dell’orto e un passo sfiorava l’arena.
Entrava ella, fragrante. Mi cadea tra le braccia.
O dolci baci o languide carezze mentre io fremente
Le belle forme disciogliea dai veli.
Svanì per sempre il sogno mio d’amore.
L’ora è fuggita e muoio disperato.
E non ho amato mai tanto la vita.”
Puccini, su questo testo, cala un carico da mille con una delle sue arie più riuscite.
Lui era un mago in queste situazioni.
Non solo, era anche un esperto uomo di teatro perché sapeva benissimo come irretire gli spettatori usando uno stratagemma efficace.
In realtà lui qualche minuto prima dell’aria fa sentire, quasi per intero, la melodia dell’aria stessa suonata dagli archi dell’orchestra, perché sapeva benissimo quanto sia importante, per chi ascolta e guarda, arrivare al momento cruciale con la sensazione di aver già sentito qualcosa di simile che, pertanto, risulta famigliare e facile da memorizzare.
Questo è quello che Puccini fa suonare all’orchestra poco prima dell’aria:
È una melodia lirica e, nello stesso tempo, drammatica e si addice perfettamente al momento che il protagonista sta vivendo.
Ovviamente, quando su questa melodia il tenore canta le parole del testo, il tutto diventa estremamente coinvolgente ed emozionante.
L’aria è molto corta in realtà, poco più di due minuti.
All’inizio un clarinetto riprende la melodia poi il tenore entra con una specie di recitativo che serve a condurre alla parte finale, molto breve in realtà, in cui la melodia si dispiega in tutta la sua potenza.
Di Stefano qui canta divinamente:
Ha un controllo espressivo della voce devastante. In questi due minuti sono racchiuse molte delle caratteristiche e delle tecniche che fanno della voce umana uno strumento così particolare e bello.
I punti più significativi sono almeno tre.
Il primo punto è sulla “ o “ di “o languide carezze”
Questo è un esempio di capacità di tenuta del suono e della dolcezza di emissione.
E’ quasi un antipasto di quello che avviene subito dopo su “ le belle forme disciogliea dai veli” dove dispiega parte della sua forza per poi quasi racchiudere la voce in modo estremamente delicato sul “disciogliea dai veli “con una tecnica sopraffina totalmente al servizio dell’espressività
Poi, alla fine sul “e muoio disperato e non ho amato mai tanto la vita” la voce si dispiega con tutta la sua potenza e rabbia per la fine che si sta avvicinando
Brividi.
In così poco tempo sono condensate tante emozioni, diversi stati d’animo e una grandissima capacità espressiva nel portare tutto ciò in dono a chi ascolta.
In questi pochi minuti abbiamo un compositore di altissimo livello, in un momento di grazia, e un interprete fuori categoria.
Cosa volere di più?
La voce si dimostra qui quello che è, cioè uno strumento meraviglioso, dimostrando, in quest’aria, parte delle sue qualità: capacità di tenuta, fraseggio legato, possibilità di fare crescendo e diminuendo sullo stesso suono cosa che a molti strumenti, ad esempio il pianoforte, è preclusa, non dimenticando, inoltre, la sua possibilità di cambiare colore e timbro per rendere al meglio il testo cantato.
E quando viene usata cos’ è uno spettacolo.
Detto questo….ciao a tutti e, al solito,….fate i bravi.