Senza Titolo
Eva Rando
Ennio Morricone : un poeta tra le note
Quindicesima puntata
Umberto Eco raccontava molti anni fa che quando portò il manoscritto del suo libro “Il Nome Della Rosa”, ambientato in un’Abbazia del 1300 all’editore , questi gli rispose che era molto bello ma suggerì a Eco di togliere le prime ottanta pagine perché troppo lente come ritmo.
Eco si rifiutò sostenendo che quelle pagine gli servivano per far entrare il lettore nel mondo dei monaci medioevali che si svegliavano alle quattro di mattina per pregare e andavano a dormire veramente “con le galline”. Avevano cioè un ritmo di vita completamente diverso dal nostro e molto più lento.
Questo per dirvi che anche la musica ha i suoi tempi.
Tempi che rendono la sua fruizione diversa, ad esempio, da quella dell’arte pittorica. Quando si entra in un museo siamo noi che decidiamo quanto e come fermarci davanti a un quadro.
La musica, come la danza, il teatro o il cinema detta lei i suoi tempi. Questo, come abbiamo spiegato nella Mollica introduttiva, può rappresentare un problema perché in un periodo in cui tutto è “mordi e fuggi”, anche la musica dovrebbe stare in tempi stretti, in tempi radiofonici per dire. Invece i tempi della musica variano seconda l’autore, il genere, la destinazione dell’opera stessa.
Dipende, soprattutto, dallo sviluppo del discorso musicale.
Ci sono dei brani che hanno incipit fulminanti, come ci sono dei libri che hanno incipit fulminanti :
” Molti anni dopo di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendia si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio”.
Questo, ad esempio, è l’incipit di “Cent’anni di solitudine” di Gabriel Garcia Marquez.
Un incipit fenomenale come lo è questo in musica:

Ci sono invece brani che non hanno, in sostanza, un incipit, come, ad esempio, “The Unanswered Question” di cui abbiamo parlato nella scorsa puntata, che inizia molto lentamente e ti fa entrare nel suo mondo un po’ alla volta.
Il musicista di cui ci occuperemo oggi sapeva padroneggiare perfettamente sia i brani con un incipit fortissimo, sia quelli che richiedono tempi di approccio più lunghi. Volevo parlarvene per molti motivi ma, il motivo contingente è dato dal fatto che recentemente sono andato al cinema a vedere “Ennio”, il film di Tornatore dedicato, appunto, a Ennio Morricone.
Anche questo film ha i suoi tempi. È molto lungo, circa due ore e mezza, ma vale tutti i minuti della sua durata perché ti porta a mano a mano dentro il mondo di Morricone che è molto complesso e articolato, e ti racconta la storia di questo importantissimo musicista, uno dei fiori all’occhiello della cultura italiana nel mondo, dagli inizi fino agli ultimi film, si potrebbe dire. E’0 una visione completa con molti filmati, aneddoti, interviste attori, cantanti e colleghi come Hans Zimmer e John Williams, ad esempio.
Parte dagli inizi come arrangiatore di brani per cantanti di successo negli anni 60 come Gianni Morandi o il “balneare” Edoardo Vianello dove già mostrava doti di originalità nell’escogitare soluzioni innovative e niente affatto scontate, lavorando soprattutto sulle sonorità, cosa che poi sfrutterà ampiamente, come vedremo nel seguito della sua carriera.
La parte più importante del film riguarda, ovviamente, la sua attività come compositore di colonne sonore e, una delle cose importanti che vengono subito chiarite è che la bravura e la capacità di Morricone dipendono sia dal suo innato talento sia dal suo percorso accademico molto approfondito di studi. È stato infatti uno degli allievi preferito di un importante compositore di musica contemporanea come Goffredo Petrassi.
Uno dei meriti più importanti di Morricone è stato quello di aver preso un’arte come quella della musica per film considerata secondaria e di serie B e averla resa un’arte tout court e di grande dignità.
Il suo modo di scrivere è, infatti, molto complesso, ci sono infatti sia incipit fulminanti come questo:

tratto dalla colonna sonora de “Il Buono il Brutto e il Cattivo”.
È un tema che si stampa nella testa immediatamente, il famoso urlo del coyote. E non è solamente il tema ma c’è anche la ricerca sulle sonorità. La seconda volta che viene proposto, infatti, è eseguito con due strumenti diversi che ne danno un sapore completamente differente.
Un altro incipit famosissimo è questo:
Anche qua troviamo, oltre ad un tema incisivo, una soluzione timbrica molto interessante, l’uso del fischio, tipica di quel periodo di Morricone. Una scelta del tutto particolare e strana ma estremamente efficace.
La sua tavolozza espressiva era molto ampia e la sua ricerca di nuove sonorità costante. Questa è una cosa fondamentale per un autore di musica da film perché lui aveva capito benissimo come il suono sia la prima cosa che sentiamo in un brano e, prima ancora di capire che tipo di musica sia, è il suono che ci porta dentro un mondo.
Il suono crea interesse, emozione o fastidio, o repulsione. Il suono arriva direttamente al nostro cervello, apre i cassetti della memoria e delle emozioni e ci fa vivere o rivivere sensazioni che credevamo sopite da tempo. Il suono ha un potere drammaturgico fenomenale e Morricone sapeva padroneggiarlo perfettamente.
Spesso utilizzava strumenti poveri come in questo caso:
In questo caso l’armonica a bocca, strumento popolare diventa uno dei protagonisti di “C’era una volta il West”. Senza l’armonica sarebbe un film completamente diverso. La musica di Morricone diventa non solo un elemento importante ma, spesso, era uno dei protagonisti del film, una voce irrinunciabile.
La cosa che mi ha sempre affascinato della sua musica è la sua capacità di prendersi i tempi. Non a caso era il compositore preferito di registi nei cui film la recitazione assumeva un ruolo importante, Non sono quasi mai film d’azione come quelli di Hollywood, ma film in cui gli sguardi, i gesti e le frasi sono importanti.
Ne è un esempio la scena famosissima del duello messicano de “Il Buono il Brutto e il Cattivo” in cui gli attori protagonisti di questo durello a tre si guardano, si squadrano e la musica diventa praticamente il quarto personaggio di una scena in cui, per lunghi tratti, non succede nulla.
Tutte queste cose le ritroviamo nel brano che da il titolo a questa Mollica. E’ una musica in cui i tempi sono fondamentali. I tempi e il suono.

Fa parte della colonna sonora di “C’era una volta in America”, un film di Sergio Leone della metà degli anni 80. Un capolavoro della cinematografia mondiale e una delle colonne sonore più belle mai state scritte. Direi una delle più belle musiche mai scritte in generale.
E’ un brano dedicato a u n personaggio non di primo piano nel film.

Più volte mi sono chiesto quale fosse il fascino particolare di questo brano e perché il suo impatto emotivo sia così devastante.
I fattori sono molteplici ma uno dei più importanti è, a mio avviso, il suono, la scelta della sonorità generale.
La scelta di Morricone, in questo caso, è molto logica. Lui affida la parte più importante agli strumenti ad arco. Strumenti di legno il cui suono è caldo e avvolgente per antonomasia.
Quando inizia il brano questa onda di suono ci investe immediatamente:
Questo suono arriva direttamente alla parte più intima del nostro essere. Poi c’è tutto il resto, ma focalizzatevi un attimo sul suono che è quello che determina tutto l’ambiente emotivo del brano. Poi c’è l’estrema maestria nel costruire la melodia.
C’è un pedale di sonorità gravi che crea attesa perché è praticamente fermo e su questo pedale si innesta la prima frase melodica:
Ecco il brano, in realtà, poteva anche finire qua nel senso che il succo è questo.
Quello che succede dopo è un’estensione di questa premessa.
Ogni volta che ascolto questo inizio non posso non pensare al fatto che Morricone amasse particolarmente una delle cose di cui abbiamo parlato nella Mollica numero cinque, che è l’ouverture del “Tristano e Isolde” di Wagner, perché questa tecnica di scrittura è simile a quella. L’idea è quella, il suono che parte dal silenzio, la frase che si ripete leggermente diversa spezzata la dal silenzio e qua dal pedale. In più, in questo caso, c’è un andamento melodico più tipicamente di gusto italiano. La melodia qui è fenomenale.
La melodia poi si sviluppa con un altro colpo di genio quando, più o meno la stessa cosa viene riproposta con un altro colore strumentale che è questo:
E quando entra la voce umana, una voce femminile non a caso, che canta in un registro abbastanza acuto ma con una sonorità calda e anche scura per l’uso delle vocali, a ciascuno di noi si rizzano i peli e ti viene la pelle d’oca perché ormai si è pienamente avvolti da questa emotività e da questo sentimento di rimpianto, senza disperazione, per qualcosa che avrebbe potuto essere e che non è stato, con uno sguardo al passato che è poi il senso di questa figura femminile, Deborah appunto, che è lo stesso senso della scena che viene accompagnata da questa musica, o della musica che viene accompagnata dalla scena, valgono entrambe le cose.
Un sentimento che fa parte di tutti noi, che abbiamo avuto o che avremo.
Tutto questo viene ottenuto da Morricone con un’inventiva melodica molto viva, con una capacità di costruzione e sviluppo della melodia stessa elevatissima, e con una scelta dei colori strumentali dove anche la voce è utilizzata come uno strumento, il più vicino a noi tra tutti.
Questa è la sua grandezza dovuta anche al fatto della sua sensibilità drammaturgica che riusciva ad adattare i ritmi delle sue musiche a quelli delle scene alle quali si riferivano.
E il risultato più eclatante è che, a un certo punto, le sue musiche sono diventate praticamente autonome fino a vivere di vita propria.
Questo brano, infatti, come molti altri, ha un suo senso indipendentemente dal film e lo possiamo apprezzare anche come composizione a sé stante.
E come faceva notare, nel film di Tornatore, Boris Porena uno dei suoi compagni di corso, mentre all’inizio tutti i colleghi consideravano con poca stima l’attività di Morricone come autore di musiche da film, lui stesso, dopo aver sentito la musica di “C’era una volta in America”, ha ammesso che quella non era musica commerciale bensì qualcosa che aveva un valore assoluto.
Quando ho sentito questa frase non ho potuto non pensare a quella scena del film “Amadeus” quando Salieri dopo aver letto la partitura della “Serenata per fiati” di Mozart si esprime così :
“Quella non era la musica di una scimmia ammaestrata, quella era la voce di Dio che ci parlava attraverso la musica”.
Io non so se in Deborah’ Theme ci sia la voce di Dio che parla attraverso la musica però senz’altro in questo brano c’è tutto il nostro mondo emotivo messo a nudo con un impatto veramente devastante e bellissimo.
Detto questo, ciao a tutti e, al solito, fate i bravi.